La preparazione della parte alla mediazione: l’avvocato accompagnatore ovvero una nuova luce sui partecipanti alla mediazione

Relazione convegno A.GI.FOR 19 dicembre 2013 Genova

 Avv. Carlo Alberto Calcagno

Avete mai provato a mangiare un uovo crudo fresco? sul tuorlo c’è un piccolo disco bianco a cui è collegato un filamento che se viene staccato porta alla rottura del tuorlo.

Quel cerchietto bianco si chiama disco germinativo.

Afferma Freud che l’Io sta su sull’Es come il disco germinativo sta sull’uovo.

Il nostro che fa le norme e pretende di imporle è grande come un disco germinativo.

La parte restante della nostra mente è inconscia.

Un disco germinativo che è di certo importante cerca di imporre a noi e agli altri il suo punto di vista.

Peccato che anche l’inconscio abbia le sue regole e le sue esigenze e che sia più “vasto”.

Nell’inconscio ci sono gli interessi, le esigenze, i rimorsi, i rimpianti, i desideri buoni e cattivi, i segreti; l’inconscio non usa la logica, non sa distinguere tra il bene ed il male (per lui hanno eguale dignità), non sa che cosa siano lo spazio ed il tempo.

L’inconscio chiede soltanto di essere soddisfatto.

È lui che ha la prima parola e talvolta anche l’ultima.

Di regola l’inconscio desidera cose diverse rispetto a quelle che desidera la coscienza.

La realtà lo argina, ma noi viviamo in un eterno stato d’ansia, facciamo una grande fatica.

Spesso accade che il nostro cliente pur vincendo la causa sia scontento. E noi non siamo in grado di darci una risposta plausibile.

Ma ciò si verifica semplicemente perché il giudice che pronuncia una sentenza favorevole soddisfa per lo più solo il disco germinativo.

Il giudice non si occupa di interessi, desideri, aspettative, valori, esigenze…

Il giudice non si occupa di ES.

Il mediatore e l’avvocato che assiste in mediazione dovrebbero occuparsi anche di ES, nel senso che dovrebbero cercare di soddisfare sia l’IO sia l’ES…

Un tempo anche i giudici della cultura indeuropea che ha influenzato la nostra, prima di giudicare dovevano guardare come si muoveva il «reo convenuto», far caso al tono della voce. “25. Scopra la mente degli uomini per mezzo dei segni esterni, del suono di loro voce, del colore del volto, del contegno, del portamento del corpo, degli sguardi e dei gesti. 26. Dal contegno, dal portamento, dai gesti, dalle parole, dai moti degli occhi o del volto si indovina l’intero pensiero” (Codice di Manù, Libro VIII. XII secolo a.C.).

Il tono della voce e la gestualità dipendono dall’inconscio e ne sono espressione esterna.

Non è un caso che dai Romani in poi in Occidente la controversia si definisse “una differenza o un conflitto di interessi tra due o più parti per pretesi diritti od inosservanza di obbligazioni, la quale può dar luogo ad un processo civile”.

La controversia è dunque una differenza od un conflitto di interessi.

Attiene in primo luogo ad ES.

La nostra capacità di elaborazione razionale, il nostro io, ci porta in dono anche una ragione (pretesi diritti od inosservanza di obbligazioni), ma il più delle volte l’elaborazione degli impulsi inconsci è parziale, spesso, a ben vedere, non è fatta nemmeno dal cliente, ma dall’avvocato in sede di consulenza.

È per questo che i mediatori definiscono il conflitto come una percepita divergenza.

Che cosa è una differenza di interessi? È un elemento del contrasto. C’è contrasto quando c’è appunto una differenza di vedute od opinioni; ma sussiste al contempo rispetto dell’altro e dei suoi bisogni, mancanza di disagio emotivo, uno scopo comune.

Che cosa è il conflitto? Sussiste un conflitto quando c’è: a) differenza di vedute ed opinioni; b) un attacco dell’altro, dei suoi bisogni e valori; c) rabbia ed ostilità; d) sospetto di inautenticità sugli obiettivi dichiarati.

Può accadere che un contrasto arrivi sul tavolo dell’avvocato o del mediatore, ma di solito ci arriva il conflitto.

Ossia ci arriva una disputa che non è solo sul contenuto, ma investe la relazione tra due soggetti.

La situazione è in altre parole più complessa: ed è l’avvocato che in prima battuta deve limitare i danni; con il conflitto ha a che fare dunque in prima battuta l’avvocato e solo in seconda battuta il mediatore.

Il mediatore, dice il decreto legislativo 28/10, «concilia la controversia».

Ossia concilia la differenza (o contrasto) o il conflitto di interessi.

In altre parole spegne il contrasto ed il conflitto di interessi che è sotteso ad una inosservanza di obbligazioni o ad una pretesa di diritti.

Il mediatore dunque non risolve la lite; sono le parti con i loro avvocati che risolvono la lite, in quanto lo desiderino, dopo che si è appianato il contrasto ed il conflitto di interessi.

Di norma il mediatore si occupa del conflitto proprio perché quando due persone scelgono la via della lite si passa solitamente da un contrasto sui contenuti ad un conflitto sulla relazione.

Come fa il mediatore a spegnere il conflitto? Cerca di facilitare la comunicazione tra le parti, fa in modo che le parti comunichino tra di loro nel modo migliore possibile. La facilitazione nella procedura è possibile se e solo se c’è collaborazione tra tutti gli attori della mediazione.

Di norma però le persone non vanno dal mediatore, ma dall’avvocato.

Il conflitto può essere affrontato dal legale e dal suo cliente in tanti modi differenti (almeno 7 mi vengono in mente[1]) tra cui la competizione e la collaborazione.

Ogni decisione può essere dettata evidentemente dalle condizioni più svariate.

Ma c’è comunque  da operare una scelta fondamentale: l’avvocato deve scegliere se considerare la controversia «un mero contrasto di diritti ed obblighi tra due individui», se cioè si vuole occupare solo dei contenuti (dell’IO), oppure se si vuole occupare anche del conflitto (di ES); occuparsi del conflitto (di ES) non significa fare lo psicologo o lo psicanalista, ma semplicemente impostare la migliore strategia negoziale possibile.

Occuparsi di ES implica una più stretta fiducia e collaborazione con il cliente in una visione di insieme del problema.

Anche la legge da ultimo sembra indicare all’avvocato la strada della collaborazione.

L’art. 8 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 da ultimo novellato[2] prevede che “Al  primo  incontro  e  agli  incontri  successivi, fino  al  termine  della  procedura,  le  parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”.

La circolare del CNF 25-C-2013 stabilisce che «Tale obbligo, tuttavia, sembra riguardare ogni “modello” di mediazione»[3].

D’altra opinione è il Ministero della Giustizia (Circolare 27 novembre 2011) che precisa “Di talchè, ferma la necessità dell’assistenza legale nelle forme di mediazione obbligatoria, nella mediazione c.d. facoltativa le parti possono partecipare senza l’assistenza di un avvocato”, ma lo stessa circolare precisa che “Naturalmente, nell’ambito della mediazione facoltativa, le parti potranno in ogni momento esercitare la facoltà di ricorrere all’assistenza di un avvocato, anche in corso di procedura di mediazione”.

Riconosciuto un ruolo in mediazione all’avvocato assistente (che chiameremo anche accompagnatore alla procedura) da parte della legge, nascono spontanee in chi scrive alcune domande.

Che ruolo ha l’avvocato in mediazione? In che cosa consiste la sua assistenza? Ha bisogno di una formazione supplementare per partecipare ad una mediazione (o ad altro ADR)? E se sì chi fornisce l’eventuale formazione supplementare? O ancora è più che sufficiente la conoscenza sostanziale e processuale del diritto per accompagnare in mediazione?

Nasce in altre parole la necessità di comprendere meglio quale ruolo possa esercitare il legale nella procedura negoziale.

Nei paesi dove la mediazione si è affermata gli organi  forensi si sono preoccupati di dettare regole sia per l’attività del mediatore, sia per quella dell’avvocato che assiste la parte in mediazione.

In Svezia le parti possono essere assistite in mediazione anche da un avvocato che però sia qualificato per assistere le parti davanti al Conciliation board[4]: la formazione vale dunque qui – come peraltro in Australia – anche per gli accompagnatori alle procedure.

L’esmpio pù eclatante da registrare è forse quello degli Stati Uniti, se non altro perché da loro il cammino della mediazione come condizione di procedibilità è iniziato con la fondazione della Pennsylvania (1681).

Ora le conoscenze di diritto sostanziale e processuale sono certamente un elemento imprescindibile che connota l’avvocato e la sua professione.

E dunque dovremmo poterle considerare un dato acquisito anche per gli avvocati che vogliano diventare accompagnatori alla mediazione o a qualsivoglia altro strumento alternativo per la risoluzione dei conflitti.

Non è un caso che nelle Corti statunitensi gli avvocati che vogliano diventare “neutri”[5] del panel giudiziario, svolgano percorsi differenziati afferenti ad abilità che nulla hanno a che spartire con il diritto.

Nel Northern district of California ad esempio ai mediatori avvocati si richiede di aver svolto attività da procuratori per almeno 7 anni e necessita loro inoltre la conoscenza del contenzioso civile in un tribunale federale.

Gli anni aumentano a 15 se all’avvocato è richiesto di fare il valutatore neutrale.

Del resto nella mediazione che sia avviata a processo instaurato di norma media solo l’avvocato.

In aggiunta a ciò i “neutri” devono possedere spiccate abilità di base[6]:

  • saper comunicare chiaramente,
  • saper ascoltare in modo efficace,
  • saper facilitare la comunicazione tra tutti i partecipanti,
  • saper proporre l’esplorazione di opzioni di accordo che trovino il consenso di tutte le parti,
  • ed in ultimo saper condurre se stessi in modo neutrale.

Siamo sicuri che tutto questo debba valere soltanto per il mediatore? Che anche l’avvocato assistente non debba  saper comunicare, ascoltare, facilitare la comunicazione,  proporre l’esplorazione di opzioni d’accordo, condursi in modo neutrale?

In oggi il decreto 28/10 pervede che siamo tutti «mediatori di diritto», il che dovrebbe implicare la messa a disposizione di tutti del patrimonio comune.

Queste abilità dell’avvocato mediatore dovrebbero essere in fondo patrimonio di ogni uomo perché in fondo la nostra vita è essa stessa comunicazione e negoziazione continua.

Ma a maggior ragione dovrebbero essere patrimonio di ogni avvocato o di ogni professionista della consulenza a prescindere dalle sue scelte ed ideologie sulla professione.

La conoscenza di queste abilità, infatti, può trovare esplicazione nella pratica professionale anche per coloro che non pensino affatto alla mediazione civile e commerciale.

Il Consiglio Nazionale Forense sta spingendo[7] da ultimo per portare nel nostro paese la negoziazione assistita.

In altre parole si fa riferimento alla negoziazione partecipativa che a fine del 2010 è stata varata in Francia con la previsione di assistenza per i soli avvocati[8].

L’istituto prende avvio da un convenzione di procedura partecipativa[9] che è un accordo[10] mediante il quale le parti di una controversia che non ha ancora visto l’intervento di giudice o di un arbitro si impegnano ad operare congiuntamente ed in buona fede per risolvere amichevolmente loro controversia.

L’accordo è a tempo determinato[11] e determina l’irricevibilità da parte del Tribunale della controversia, salvo che per gli atti urgenti[12].

L’accordo rinvenuto può essere invece omologato e divenire titolo esecutivo.

La negoziazione partecipativa presuppone che i legali abbiano una buona conoscenza delle regole della negoziazione ed infatti, la legge prevede che se non si trovi un accordo, le parti possano adire il giudice senza la necessità di una preventiva mediazione[13].

Il legislatore francese parte cioè dal presupposto che se la controversia è affrontata con dovizia da preparatori esperti e condotta da negoziatori esperti, la mediazione potrebbe risultare sovrabbondante qualora essi non riescano a concludere l’accordo.

Tale convinzione appare a chi scrive discutibile, perché l’esigenza del mediatore  nasce proprio nel momento in cui le parti o i loro rappresentanti non riescano a trovare una soluzione che porti al comune soddisfacimento.

Ad ogni modo il principio che mi interessa qui sottolineare e che è sottinteso nelle pieghe della norma è un altro: una procedura di ordine negoziato necessita di adeguata preparazione e negoziazione per tradursi in un accordo.

La procedura di convenzione partecipativa non coincide, in altre parole, con la semplice omologazione della transazione tra avvocati che è presente peraltro da parecchi anni in diversi paesi europei[14].

È qualcosa di profondamente diverso, pena, in difetto, l’inutilità di mettere in campo questo nuovo congegno giuridico.

La negoziazione partecipativa presuppone nozioni[15] che l’avvocato non impara solitamente sui banchi universitari e che sono differenti dal predetto bagaglio di diritto procedurale e sostanziale.

Unitamente alla mediazione civile e commerciale la negoziazione partecipativa  prende a piene mani le sue regole dalla negoziazione e dunque l’accompagnatore alla procedura di mediazione, piuttosto che l’assistente nella procedura partecipativa non si possono  permettere di ignorarle.

Ma lasciamo da parte le ipotesi astratte (la negoziazione partecipativa è per ora de iure condendo) ed i desideri che ogni professionista voglia nutrire.

Veniamo alla legge vigente. L’art. 8 del d.lgs. 28/10 attuale prevede: <<Durante  il primo incontro il  mediatore  chiarisce  alle  parti  la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento>>.

Sulla durata di questo primo incontro il CNF nella summentovata circolare 25-C-2013 precisa: “Perciò sembra opportuno che la lettera di convocazione indichi la durata presunta del primo incontro (salvo il caso di immediata prosecuzione della mediazione in seguito allo stesso), che non dovrebbe essere inferiore a un’ora per permettere l’espletamento di tutte le attività richieste: fase informativa, valutazioni a carico delle parti e dei loro avvocati e verbalizzazione dell’incontro”.

Un’ora a disposizione dunque per il primo incontro. La legge ci dice sostanzialmente e lo ripete peraltro la stessa circolare che si devono distinguere due fasi,  una di spiegazione (funzione e le modalità di svolgimento della mediazione), l’altra di decisione (le parti e i loro legali si esprimono sul fatto di iniziare la procedura).

La prima fase potrebbe (e dovrebbe) durare circa 15 minuti.

Che cosa fare dunque nei restanti 45 minuti che sono dedicati alla decisione?

Che cosa fanno i legali nei 45 minuti che rimangono?

Ascoltano meramente le parti? Le posizioni delle parti sono per natura opposte ed inconciliabili. È utile ed appagante l’ascolto?

Parlano di diritto tra di loro? Se sì quale utilità può avere parlare di diritto? In fondo il mediatore nulla decide, né attribuisce torti o ragione, né fa relazioni al giudice della causa, né verbalizza posizioni delle parti perché un domani potrebbero penalizzarle[16].

Può essere utile alle parti che i loro assistenti discutano di diritto? Ammesso e concesso che i clienti comprendano pienamente i temini tecnici messi in campo, che utilità immediata possono ricavare da una arringa difensiva?

Peraltro la stessa circolare precisa, e ci mancherebbe il contrario, che una mediazione senza parti debba considerarsi cosa eccezionale.

E allora quale potrebbe essere un ruolo proficuo per le parti e per il loro avvocato?

Quanto alla prima fase la Circolare del CNF ritiene che debbano collaborare col mediatore e dunque che i legali debbano permettere al mediatore di fornire le spiegazioni in ordine alla procedura, ma quanto alla seconda stabilisce che non sia opportuno che i legali esaminino i documenti correlati alla controversia, ma che il mediatore possa, se lo ritiene, anche tenere delle sessioni separate.

Ora nelle sessioni separate della controversia si entra nel merito della controversia. Può apparire strano che si consenta di entrare nel merito senza approfondire lo studio di documenti che pertengano all’altra parte. C’è una lesione del contraddittorio?

O forse non sarà che che la decisione di mediare dipende da un percorso che le parti hanno già fatto in sede di consulenza e che tiene virtualmente conto di tutte le possibili variabili, anche di quelle che non sono conosciute e conoscibili?

Se così fosse, siamo sicuri che si possa identificare col percorso che stiamo già facendo nei nostri studi professionali?

Ogni anno la American Bar Association[17] compila delle guide per la mediazione sia per coloro che vogliano mediare senza la presenza di avvocato[18], sia per coloro che vogliano mediare con l’assistenza de legale.

Queste guide si trovano in ogni luogo pubblico, nei tribunali e presso gli studi legali; i cittadini americani sanno che cosa devono pretendere dai loro avvocati.

Dalla guida inerente la mediazione assistita da avvocato[19] si possono evincere alcuni obblighi e/o comportamenti il cui espletamento i cittadini americani possono pretendere dagli avvocati a cui si affidano appunto come clienti ovvero dagli avvocati che agiscono come neutri in mediazione.

In sostanza queste guide si dilungano sulle modalità che il legale potrà e dovrà impostare nella consulenza per coloro che optino per la mediazione.

1) L’avvocato accompagnatore deve conoscere le regole del programma della Corte ove la mediazione si svolge[20], le regole di procedura della Corte e le eventuali regole di procedura e lo stile del mediatore incaricato[21]. Ne deve parlare con il suo cliente ed in ogni caso deve porsi le seguenti domande:

  • Le parti produrranno una nota al mediatore prima della sessione di mediazione in cui si delineano i punti controversi e inerente a qualunque argomento il mediatore possa richiedere?
  • Questa nota sarà confidenziale per il mediatore o da scambiare con controparte?
  • Il mediatore chiederà di firmare un accordo per mediare? Se così fosse l’avvocato può chiedere al mediatore di fornirne una copia prima della mediazione in modo da poterlo analizzare e vedere se ci sono domande da fare in merito.
  • Quali informazioni dovranno riservarsi alla seduta di mediazione?
  • Chi sarà presente alla sessione di mediazione? La mediazione è effettiva quando il rappresentante della parte ha pieni poteri, è ben informato e può prendere decisioni indipendenti sul caso. Se non può partecipare per il cliente una persona dotata di pieni poteri, l’avvocato dovrebbe parlarne prima della sessione col mediatore.
  • Qualcuno parteciperà via video o telefono o “a chiamata” in caso di necessità?
  • Parteciperanno alla mediazione oltre agli avvocati delle parti anche altri professionisti?
  • Ha il mediatore avuto una precedente relazione con qualcuno (parti, avvocati e consulenti) dei partecipanti alla mediazione?
  • Quando inizia la sessione e quanto durerà?
  • Dove si terrà la sessione di mediazione?
  • Ogni parte potrà presentare i suoi punti di vista nella sessione congiunta? Se sì che cosa può essere di aiuto dire al mediatore?
  • Quali argomenti si devono riservare per i caucus col mediatore?
  • Che cosa potrebbe fare il mediatore per aiutare il cliente?
  • Se le parti raggiungeranno un accordo chi lo preparerà?
  • Quanto costa la mediazione, nel caso? Come si dividono i costi?[22].

2) Quando la parte è in grado di partecipare al processo di selezione del mediatore, l’avvocato accompagnatore è tenuto a discutere  in merito:

  • a quali esperienze e qualità devono contraddistinguere un mediatore che sia in grado di aiutare le parti a risolvere la disputa;
  • alla sussistenza o meno in capo al mediatore eventualmente conosciuto di tali esperienze e qualità[23].

3) L’avvocato accompagnatore deve spiegare alla parte – se non abbia mai partecipato ad una mediazione – che può ricavare maggiore profitto da una preparazione preventiva della mediazione[24].

4) L’avvocato accompagnatore deve spiegare alla parte che abbia già partecipato ad una mediazione che una preparazione preventiva è utile perché le questioni, le parti ed il mediatore sono comunque differenti[25].

5) L’avvocato accompagnatore deve essere consapevole del fatto ed è tenuto a spiegare al cliente che non esiste un modo migliore di un altro per preparare la mediazione e che comunque la preparazione è assai impegnativa[26].

6) Durante la preparazione della mediazione l’avvocato accompagnatore è tenuto a:

  • raccogliere le informazioni rilevanti;
  • sviluppare una strategia negoziale;
  • aiutare il cliente ad avere una visione comune di quello che ognuno può aspettarsi dall’altro e dunque dei ruoli di ognuno;
  • considerare alcune questioni anche se non possono avere una risposta anticipata e la cui risposta può variare nel corso della procedura:
  1. Quale è il reale conflitto?
  2. Ci sono problemi causati dalla sfiducia o da una cattiva comunicazione?
  3. Che cosa si vorrebbe realizzare nella mediazione?
  4. Che cosa il mediatore deve conoscere per aiutare il cliente a raggiungere l’obiettivo?
  5. Che cosa deve conoscere l’altra parte?
  6. Di che cosa ha bisogno il cliente per essere soddisfatto?
  7. Di che cosa ha bisogno l’altra parte per sentirsi soddisfatta?
  8. Nell’ipotesi di raggiungimento dell’accordo il cliente vuole mantenere una relazione con la controparte dopo la risoluzione della controversia?
  9. Su quali questioni le parti si possono accordare?
  10. Su quali questioni il cliente non può accordarsi?
  11. Quali informazioni, documenti, casi, o regole potrebbero far cambiare idea alla controparte sulle questioni coinvolte nella disputa?
  12. Che cosa potrebbe causare un cambiamento nel cliente?[27]

7) Anche se il cliente è convinto che le altre persone abbiano torto, l’avvocato accompagnatore sa che per un buona riuscita della mediazione deve esplorare i punti di vista altrui. L’avvocato accompagnatore deve dunque avvertire il cliente che in mediazione:

  • può ascoltare opinioni che non condivide;
  • è più produttivo sforzarsi di comprendere le opinioni altrui anche se non si condividono;
  • il mediatore vuole ascoltare ciò che è realisticamente possibile;
  • è meglio ascoltare con attenzione la controparte e cercare di individuare gli argomenti su cui concorda: ciò, infatti, può indurre la controparte a capire le opinioni del cliente e a chiudere un accordo;
  • è meglio trattare la controparte con rispetto quando si è in disaccordo: il rispetto attira rispetto;
  • è meglio mantenere una mente aperta e desiderosa di considerare varie opzioni di un accordo[28].

8) L’avvocato accompagnatore ha il dovere di informare il cliente che il mediatore, a seconda della fattispecie,  può essere indotto a fornire  suggerimenti ed opinioni sul caso, ma che il cliente ha diritto di ignorarle e di prendere le proprie decisioni, inclusa la decisione di non accettare una particolare offerta e di non raggiungere un qualsivoglia accordo[29].

9) Nel caso in cui la mediazione porti ad un parziale risultato il cliente ha il diritto di chiedere all’avvocato che valuti l’opportunità, oralmente o per iscritto, di una nuova sessione di mediazione[30].

L’avvocato mediatore:

a) ha il dovere di spiegare alle parti tutti gli aspetti inerenti la confidenzialità della procedura di mediazione[31].

b) può aiutare a mettere per iscritto l’accordo raggiunto se gli avvocati non accompagnano le parti; se le parti sono rappresentate da avvocati sono questi ultimi che ordinariamente preparano l’accordo scritto[32].

L’itinerario descritto deriva, dicevamo, da un certo modo di condurre la consulenza americana. Comporta forse per noi  un cambiamento di mentalità.

Un avvocato americano non dovrebbe essere dissuaso dal fornire un “candide advice” dalla prospettiva che il consulto possa essere non gradito al cliente.

Per “candide advice” si intende una consulenza libera da pregiudizi, imparziale, caratterizzata da apertura e sincerità di espressione; senza riserve.

E dunque considerare che seguire il tragitto sopra descritto porti il nostro cliente a recarsi presso un altro studio legale, perché ciò che il cliente chiede oggi non è che un provvedimento favorevole del giudice, non ci esime dal fare mente locale sul fatto che siamo liberi professionisti, che cioè siamo pagati per pensare con la nostra testa come condurre la consulenza nel modo più proficuo per il cliente stesso.

Saper ascoltare in modo efficace significa dunque che il legale[33] prenda in considerazione l’eventualità di cambiare il suo modo di fare consulenza.

L’assistenza inizia con la consulenza.

Ed è dal setting che inizia la consulenza.

Per setting in senso lato s’intende un insieme strutturato di componenti multidimensionali: sapere, norme, poteri, rituali, spazi, strutture, architettonica, oggetti, tempi.

Il setting assume grande importanza in mediazione: il mediatore deve adottare tutte le accortezze perché coloro che mediano si sentano a loro agio.

Ma anche il cliente di un professionista ha l’esigenza di entrare in un ambiente ove può affrontare la sua questione nelle migliori condizioni.

Del pari il legale ha la necessità di essere messo nella migliore condizione per svolgere dei compiti che lo aiutano a comprendere  se e  come essere utile a chi si rivolge al suo studio.

Il tradizionale parere giuridico reso da dietro ad una scrivania (spesso oberata dalle pratiche[34])  potrebbe peraltro rivelarsi poco funzionale al cliente dello studio legale.

Quanto a quest’ultima modalità della consulenza, si può rilevare che inconsciamente due persone sedute frontalmente tendono a dividere il tavolo in parti eguali come per una partita ideale e c’è il rischio che tendano ad assumere un atteggiamento competitivo e quasi di sfida[35].

E dunque è difficile che si instauri un rapporto di tipo collaborativo per la risoluzione della questione.

Inoltre si tenga presente che la comunicazione tra le persone non si incentra principalmente sugli aspetti verbali[36].

E anche gli aspetti verbali sono presi in considerazione nella maggior parte dei casi con una prospettiva non sempre utile, ossia per dire la nostra e introdurre l’argomento che ci preme o ci è stato evocato dalle parole dell’interlocutore[37].

Chi vuole comunicare in modo efficace con il proprio cliente dovrebbe invece parlare dopo aver ascoltato il verbale e seguendo il filo conduttore che l’interlocutore stesso gli suggerisce attraverso le sue reazioni non verbali[38].

La maggior parte della comunicazione che avviene in una interazione tra esseri umani dipende dal paraverbale[39] e dal linguaggio del corpo; aggiungiamo il contesto[40] in cui avviene l’interazione e anche il silenzio[41], aspetto quest’ultimo che si rivela spesso preziosissimo.

Le persone adulte hanno però imparato a controllare abbastanza bene il proprio linguaggio del corpo al di sopra della cintola[42], e dunque chi si basasse soltanto su quello che emerge dal piano di una scrivania, acquisirebbe segnali che potrebbero rivelarsi non corrispondenti a ciò che prova o pensa il cliente veramente.

Le persone adulte, al contrario, non si curano dei segnali che vengono inviati dalla parte inferiore del corpo e non potrebbero nemmeno farlo pienamente, se lo volessero.

Quando ad esempio un messaggio visivo (che deve avere valore emozionale) arriva al talamo che è una sorta di centralino di smistamento dei messaggi nelle varie aree (visiva, linguistica ecc.), viene dirottato in primo luogo verso l’amigdala.

L’amigdala interviene se ritiene che l’evento assomigli ad un altro da lei censito. Successivamente il talamo invia il messaggio alla corteccia prefrontale che stabilisce se il comportamento dell’amigdala sia stato o meno corretto.

Il processo dura circa un secondo: se la reazione dell’amigdala non è corretta qualcosa però “scappa”, ossia il linguaggio del corpo.

Dallo “scontro” tra amigdala e corteccia prefrontale si produce cioè un brandello di azione originale che è quel che noi chiamiamo linguaggio del corpo.

Questi segnali sono dunque assai importanti per i consulenti perché sono i più “veri”, indicano quello che il soggetto sta pensando realmente.

In linea di massima possiamo dire che le espressioni del viso comunicano quello che la persona prova in un dato momento, mentre i movimenti del corpo fanno capire quanto è intensa l’emozione.

Mentre è possibile controllare in parte la mimica del volto, molto più difficile è controllare i misuratori corporei (effect-display) [43].

Il legale consulente ha bisogno di verificare fin da subito se c’è un rapporto di congruenza tra quello che  sta affermando il potenziale cliente (linguaggio verbale o digitale), la sua mimica facciale ed i messaggi che inviano le gambe e le mani (linguaggio analogico).

Questo perché in primo luogo – prima ancora di capire a che punto è arrivato il conflitto – deve decidere se acquisirlo o meno tra la sua clientela.

La verifica della congruenza tra i segnali del corpo e tra il linguaggio analogico e verbale, potrebbe dunque risultare molto complicata se le persone stanno sedute dietro ad una scrivania, a tutto danno di una ponderata valutazione.

Per risolvere il problema basterebbe attrezzare una parte dello studio per la consulenza:  sarà sufficiente un piccolo tavolino basso per appoggiare la documentazione e magari qualche genere di conforto[44].

Saranno poi necessarie delle poltroncine o sedie di uguale altezza[45] che  rendano possibile la visuale dell’intera sagoma del potenziale cliente[46].

La distanza delle poltroncine andrebbe curata poiché il potenziale cliente vuol vedere rispettato il suo spazio vitale o prossemico[47]: nei rapporti formali con coloro che non sono nostri amici è buona norma quella di non derogare la distanza sociale (che può peraltro variare a seconda della nazionalità del cliente)[48].

Lo spazio per la consulenza potrebbe poi essere ubicato ad una certa distanza dalla porta di ingresso dello stanza adibita a consulenza, di modo che il legale possa controllare l’andatura del potenziale cliente: la lunghezza del passo, l’intensità con cui appoggiamo o pestiamo i piedi per terra tradisce la nostra personalità, l’emozione e tanti altri messaggi; se ad esempio le falcate sono ampie e decise e veloci, potremmo ritenere che abbiamo a che fare con un potenziale cliente collerico, permaloso, pignolo e in perenne rincorsa contro il tempo[49].

Secondo uno studiosa[50] bastano, infatti, soltanto 3 secondi per giungere a conclusioni mirate su un perfetto sconosciuto.

E ciò grazie all’amigdala già citata, una ghiandola del nostro cervello medio, che “ragiona” per sensazioni, sulla base di una percezione olistica, cioè di una impressione globale. Basta un’occhiata e spesso il giudizio è automatico: il nostro cervello provvede a fare una sintesi di tutta una serie di componenti.

Fondamentale appare poi la stretta di mano che si scambia con chi si rivolge al nostro studio[51].

Si deve porre attenzione non solo a come ci porgono la mano, ma a come la diamo noi.

La stretta di mano determina una impressione favorevole che si protrae per la restante parte del colloquio[52].

Può indicare se il nostro potenziale cliente è stressato[53], se cercherà di dominarci[54], se si mostrerà aggressivo o diffidente[55], se sarà collaborativo[56] o meno[57].

E dunque bisogna allenarsi a dare la mano nel modo equilibrato, non assecondando i tentativi di dominarci[58], perché diversamente la consulenza comincerebbe davvero in salita.

Per prendere una decisione a proposito dell’acquisizione di clientela può essere poi importante l’analisi dei movimenti  principali delle mani del nostro interlocutore..

Dalla gestualità il legale potrà, infatti, ricavare se il soggetto possiede una personalità cooperativa: ciò ha un senso soprattutto per l’uso dei mezzi di ordine negoziato che sono fondati essenzialmente sulla collaborazione delle parti, ma tale constatazione sarebbe comunque preziosa anche con riferimento allo sbocco contenzioso.

Ci sono poi soggetti che sono preda di un conflitto invischiato, ossia sostanzialmente vivono per litigare.

Spia di tale conflitto è ad esempio l’arrivo in studio con un ricco dossier di sentenze e documenti rinvenuti nelle sedi più disparate, il pretendere da subito di insegnare al legale quella che è la via migliore per affrontare la controversia.

Con tali soggetti qualsiasi percorso potrebbe rivelarsi problematico e bisogna andare cauti[59].

Una volta acquisito il cliente inizia la consulenza vera e propria.

La tradizionale consulenza ha come effetto finale la “depurazione” dell’esposizione dell’assistito nella prospettiva di dover affrontare un processo.

Al giudice, infatti, non possono che essere sottoposte posizioni giuridiche ed i legali sono abituati da sempre a formulare le pretese dei loro clienti in termini di diritti od interessi riconosciuti dall’ordinamento (diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi diffusi ecc.).

In relazione a tali diritti od interessi riconosciuti dall’ordinamento il cliente viene poi considerato come creditore o debitore, proprietario od inquilino, mutuatario o mutuante e così via.

La negoziazione e dunque l’accompagnamento ad un procedura invece fa sì che si considerino sia le posizioni giuridiche canoniche, sia i desideri, i valori, i bisogni, le credenze del cliente che ordinariamente il legale non indaga e che tantomeno rappresenta in giudizio.

In negoziazione inoltre le caselle del rapporto giuridico (debitore, creditore, proprietario, locatore, conduttore ecc.) possono mutare e comunque anche perdere di significato. Bisogna esserne consapevoli.

Il legale è inoltre abituato tradizionalmente a:

a) considerare in prima battuta il punto di vista del cliente,

b) secondariamente i fatti che derivano dalle carte e che attengono al passato della controversia (e talvolta al presente),

c) a tentare tra di essi una conciliazione,

d) e quindi ad applicare al prodotto le norme e la giurisprudenza per sviluppare ed articolare una tesi difensiva che in qualche modo rafforzi il punto di vista di partenza.

Il legale accompagnatore non lavora solo con l’esposizione del suo cliente, ma con quella di tutte le parti coinvolte: il punto di vista iniziale, precipuo oggetto di cura dell’attività difensiva, può dunque venir abbandonato qualora ciò si riveli conveniente per il cliente.

Ciò può avvenire anche nel processo, ma il mutamento non ha solitamente di mira l’interesse altrui e può comunque essere operato solo nella fase iniziale del processo.

In negoziazione non ci sono che i limiti che appongono le parti.

I fatti passati rivestono poi un significato marginale, perché ciò che conta in negoziazione è soprattutto il presente ed il futuro dei rapporti tra le parti: il passato può al limite essere anche “cambiato” se ciò si rivela conveniente per coloro che negoziano.

Il legale accompagnatore non ha la necessità primaria di sviluppare una narrazione che sia coerente con un impianto normativo.

La priorità è quella di trovare la migliore soluzione che possa soddisfare il suo cliente e nel contempo le esigenze della controparte.

Una volta trovata una o più soluzioni che soddisfino entrambe le parti del rapporto si porrà naturalmente il problema della legalità della scelte operate, ma ciò riguarderà l’intero nuovo rapporto che si rinvenga tra le parti.

Questa prospettiva impone che muti ciò che l’avvocato accompagnatore ha necessità di “ascoltare” durante l’incontro col suo cliente.

Potrebbe, infatti, non essere produttivo focalizzare l’attenzione esclusivamente sugli elementi della fattispecie che comportano una valutazione in termini di ragione o torto.

Perché ci sono elementi positivi che sono comuni alle parti come l’amicizia, la stima professionale ecc., che possono costituire una base per il presente ed il futuro dei rapporti e dunque per spegnere la controversia e trasformarla in una occasione di crescita.

Ogni relazione umana ha una testa ed una croce e il conflitto le tiene unite come in una moneta: sta ai comunicanti trasformare positivamente, ossia verso la testa, il magnete conflittuale[60].

Se tanto per fare un esempio Tizio e Caio stanno controvertendo su un contratto di appalto potrebbe essere poco utile per l’avvocato di Tizio verificare che Caio appaltatore abbia o meno rispettato gli obblighi contrattuali, mentre potrebbe dare una svolta alla vicenda l’informazione che il suo cliente ha da effettuare altri lavori nella sua proprietà, opere che se non ci fosse stata controversia, avrebbero potuto essere realizzate dall’appaltatore.

Nella consulenza tradizionale il cliente pone poi di solito un quesito e l’avvocato fornisce una risposta scritta od orale.

La risposta ha di solito carattere tecnico sotto vari profili (oggetto, linguaggio, formalità ecc.). Conscia di tale evidenza L’American Bar Association detta all’avvocato una regola d’oro in materia di consulenza.

Nel rendere la consulenza l’avvocato “può riferirsi non soltanto alla legge, ma alle altre considerazioni come ai fattori morali, economici e sociali e politici, che possono rilevare per la situazione del cliente[61].

Il commento alla regola  ci spiega che:

  • un consulto legale formulato in termini strettamente giuridici può avere scarsa utilità, specialmente quando considerazioni pratiche, come il costo o gli effetti sulle persone, sono predominanti;
  • un cliente può chiedere espressamente od implicitamente un consulto strettamente tecnico;  quando tale richiesta viene effettuata da un cliente esperto in questioni legali, l’avvocato può accettare e prenderlo alla lettera. Quando tale richiesta viene effettuata da un cliente inesperto in materia giuridica, tuttavia, la responsabilità dell’avvocato come consulente può ricomprendere che egli indichi che possono essere coinvolte altre considerazioni rispetto a quelle strettamente legali.

E dunque per l’American Bar Association in primo luogo il contenuto giuridico della consulenza che noi in Italia usualmente diamo per centrale, potrebbe rivelarsi di scarsa utilità ed in ogni caso il diritto dovrebbe essere inserito in una cornice più ampia.

Il più delle volte accade tra l’altro che il cliente non professionista del diritto comprenda solo una piccola parte di quanto ha ricevuto in consulenza.

Ma la preoccupazione primaria del cliente è in fondo quella che l’avvocato si prenda in carico il problema e quindi nella maggior parte dei casi il cliente si “accontenta” di quel poco che ha compreso e ritenuto.

Tale atteggiamento abbastanza usuale può dare luogo nel tempo a malintesi che possono minare gravemente il rapporto fiduciario.

I malintesi peraltro si verificano anche qualora l’avvocato si sforzi di utilizzare un linguaggio alla portata del cliente perché incidono inevitabilmente sul messaggio alcuni elementi:

  • i cosiddetti filtri (problemi fisici e psicologici, soggettività[62], sessualità[63], filtri neurologici[64] e sociali[65]) propri dell’emittente e del ricevente,
  • ed alcune distorsioni del messaggio comunicativo (generalizzazioni che nascondono rabbia e rancore, aspettative mancate, conflitti invischiati ecc.).

Dobbiamo sempre tenere presente che quando comunichiamo più del 50% della comunicazione è visiva (cioè dipende dall’aspetto della persona che parla), circa il 40% è relativa al tono di voce (a come il parlante si esprime) e quasi il 10% è relativa al contenuto (a quello che il parlante ha realmente detto).

Da ciò consegue che il 90 % della comunicazione potrebbe prestarsi all’equivoco.

Circa il contenuto si deve essere inoltre consapevoli del fatto che, proprio per la presenza dei filtri e delle distorsioni della comunicazione, se Tizio vuol dire il 100% in realtà riesce a dire il 70%.

Caio che ascolta a sua volta recepisce  il 50%, capisce il 30% e ricorda il 20%.

Da tutto ciò consegue che un mero e semplice ascolto delle parole, specie se specialistiche, comporta davvero una comprensione molto ridotta del messaggio comunicativo.

Saper comunicare chiaramente, significa dunque per l’avvocato prendere massima cura di come viene recepito il messaggio dal cliente.

Per far ciò non basta semplificare il proprio linguaggio, come si potrebbe credere.

Bisogna porre attenzione al verbale, paraverbale e al linguaggio del corpo proprio e di chi si affida allo studio.

Dalla postura, dallo stazionamento del respiro, dal tono e dal ritmo della voce e dai verbi utilizzati nell’esposizione, il legale potrà già ricavare indicazioni se il soggetto che si trova davanti sia visivo, auditivo o cenestesico (VAK[66]).

Ognuno di noi privilegia un determinato canale (visivo, cenestesico, auditivo) per esprimersi.

Ogni canale VAK comporta l’uso di un particolare lessico e di un peculiare uso della voce: se l’avvocato ad esempio fosse auditivo per natura parlerebbe ad una velocità e ad un tono medio, e utilizzando parole[67] e locuzioni[68] attinenti ai suoni e rumori; ma se incontrasse un cliente visivo dovrebbe utilizzare parole[69] e locuzioni[70] che hanno a che fare con le immagini  ed avere un eloquio rapido a tono abbastanza alto, diversamente il suo interlocutore farebbe una gran fatica per comprenderlo.

Tale indicazione peraltro vale anche per l’attività di udienza dell’avvocato e per il confezionamento degli atti processuali: se il giudice è cenestesico, l’avvocato dovrà parlare con tono di voce basso e lentamente ed utilizzare parole[71] e frasi[72] che hanno a che fare con il senso del tatto e del gusto; l’utilizzo delle parole di riferimento comporta che il giudice legga i documenti difensivi con maggior piacere ed attenzione.

Peraltro ai diversi VAK corrispondono anche determinate posture che possono aiutare il consulente nella individuazione del canale del cliente, dell’avvocato, del giudice, del cancelliere e chi ne ha più ne metta.

Il visivo ha di solito una postura eretta, spalle alzate e collo proteso, l’auditivo tiene facilmente una posizione “telefono”(corpo e testa leggermente inclinata con la mano vicino l’orecchio) e le spalle sono poco incurvate, il cenestesico tiene una posizione più inerme: il corpo e testa sono perennemente orientati verso il basso.

La corretta individuazione dei VAK può poi aiutare a verificare, unitamente allo sguardo, se il racconto che il cliente fa è veritiero: non certo per poi accusarlo, ma per rassicurarlo del fatto che il rapporto fiduciario impone il più assoluto riserbo.

Ancora l’individuazione corretta dei VAK porta ad individuare a grandi linee le possibili personalità che appartengono una persona attraverso l’uso combinato con l’enneagramma.

L’esperienza ha insegnato allo scrivente che l’enneagramma è uno strumento che può rivelarsi assai prezioso per l’avvocato o in genere per il consulente.

Si tratta di un’antichissima dottrina forse formata in Caldea nella notte dei tempi e che nella organizzazione attuale dovrebbe risalire a Pitagora: essa individua 9 tipologie psicologiche a cui un uomo o una donna possono appartenere.

Il grande matematico le indicava solo coi numeri, mentre noi utilizziamo dizioni moderne: Perfezionista (tipo 1), Altruista (tipo 2), Manager (tipo 3), Romantico (tipo 4), Eremita (tipo 5), Scettico (tipo 6), Artista (tipo 7), Capo (tipo 8), Diplomatico (tipo 9).

Questo strumento si presta a diverse utilizzazioni tra cui la terapia, ma il suo utilizzo non comporta certo che l’avvocato invada il campo dell’operatore psicologico.

Al legale accompagnatore è utile in quanto ad ogni tipologia sono gradite o sgradite appunto determinate domande oppure l’uso di determinate tecniche creative che possono essere di aiuto per allargare la base negoziale.

I  VAK sono collegati a queste tipologie in questo senso: ogni personalità può possedere in situazione di stress (VAK A) un determinato VAK e non un altro; lo stesso possiamo dire in situazione di riposo (VAK E) che difficilmente si raggiunge in consulenza; ogni personalità non può mai avere tre VAK, ma soltanto due.

Le personalità (in ogni stato) possono essere indagate con opportune domande[73].

Le domande in genere costituiscono la base della consulenza dell’avvocato accompagnatore perché servono ad individuare quali siano gli elementi principali in gioco: le carte, infatti, non raccontano che quello che è stato, non sempre identificano i  desideri del cliente; addirittura accade spesso che il cliente non sappia che cosa vuole esattamente dal suo avvocato.

Le domande non sono mai neutre, né per chi le fa né per chi deve rispondere[74].

La domanda ipotetica o riflessiva, ad esempio va utilizzata con cautela: è gradita al perfezionista (tipo 1)[75], allo scettico (tipo 6)[76] e al romantico (tipo 4)[77].

Non è gradita se rivolta al manager (tipo 3)[78] e all’eremita (tipo 5)[79].

È da verificare, quando si consideri strettamente necessario, con le tipologie: capo (tipo 8), altruista (tipo 2), diplomatico (tipo 9) e artista (tipo 7).

Una volta che il professionista ha sciolto la riserva in senso positivo è necessario verificare a che punto sia arrivato il conflitto tra l’assistito e potremmo dire per praticità la controparte.

Ci sono in altre parole da compiere valutazioni che non sono strettamente giuridiche circa lo strumento che potrebbe rivelarsi più idoneo e che non riguardano tanto la fattispecie sottoposta al professionista, quanto i soggetti coinvolti.

In particolare vi sono da combattere gli elementi in base ai quali il messaggio viene distorto.

Essi riguardano sia la comunicazione del legale sia quella del cliente.

Si badi bene che l’interazione tra due persone ha di regola come presupposto la circolarità: ciò che il legale afferma costituisce stimolo per la comunicazione del cliente che a sua volta costituisce risposta e stimolo per la comunicazione del legale e così via.

La distorsione della comunicazione inficia dunque tutto il rapporto come un gatto che si morde la coda.

Per rompere il circuito vizioso il legale ha a disposizione un mezzo formidabile che attiene sempre alle domande che può rivolgere al cliente.

Il modo di formulare le domande tuttavia non è mai neutro per il cliente, lo abbiamo detto.

Nel senso che ad ogni tipo di domanda si ottiene un determinato effetto[80].

Per verificare ad esempio se quanto racconta il soggetto è un dato oggettivo su cui il legale può lavorare, ovvero nasca da un pregiudizio o da una percezione selettiva, se non sia  frutto di un malinteso o di emozioni temporanee (come rabbia e paura, che sono le più frequenti) o semplicemente di aspettative mancate[81], si possono ad esempio formulare domande aperte[82] e circolari[83].

Accade frequentemente che una persona si rivolga ad un avvocato in virtù della tattica del fatto compiuto[84], ossia sia arrivato al punto di ritenere che il dialogo con la controparte non serva ad alcunché.

E ciò in virtù appunto di una percezione selettiva, ossia della erronea convinzione basata su un atteggiamento isolato della controparte che la stessa gli sia ostile (ad esempio un mancato saluto, una risposta sopra le righe, una telefonata poco cordiale, ecc.).

Oppure può accadere che il cliente non abbia nemmeno provato a risolvere la sua controversia con il negoziato diretto.

Mentre in quest’ultimo caso l’avvocato ha un ampio margine di manovra, nella prima situazione il quadro si restringe perché gli studi dicono che siamo in una fase win-lose, ossia in una fase dove ormai ci si è convinti che l’unica scelta possibile sia quella di vincere contro un nemico.

Ma così come farebbe un buon mediatore anche l’avvocato può essere in grado di disinnescare le percezioni selettive tramite le domande opportune e senza giudicare quel che il cliente dice, poiché per questo ultimo ciò che riferisce assume i connotati della oggettività.

L’intento del legale è in relazione a ciò quello di separare il problema dalla persona del suo assistito e da quella della controparte, perché diversamente la questione non può essere affrontata in modo lucido.

Se le domande però non danno buon esito ed il soggetto rimane radicato sulle sue posizioni, i margini per un intervento efficace nell’ambito del negoziato si riducono.

Le tecniche creative rivestono poi un’importanza determinante per la preparazione di uno strumento di negoziato.

In ciò si percepisce la differenza abissale tra l’oggetto della transazione e l’accordo di mediazione.

Nello schema della transazione ciascuna delle parti rinuncia a qualche cosa; l’accordo di mediazione invece parte da presupposti opposti nel senso che la procedura è tesa ad incrementare le risorse in gioco.

Tale incremento si gioca sull’applicazione della migliore e più opportuna tecnica di creatività.

E siccome ogni tecnica comporta che i partecipanti si mettano in gioco completamente non è detto che vi possa essere sempre adesione all’utilizzo.

Ci sono tecniche che ad esempio partono da, quando addirittura non si traducono in un paradosso.

Per incrementare le vendite nei supermercati si è partiti a suo tempo dal presupposto paradossale che fosse il grande magazzino a dover pagare il cliente per l’acquisto effettuato.

In conseguenza di ciò quando andiamo al supermercato oggi riceviamo buoni sconto per la benzina,  bollini per collezionare vari prodotti ecc.; tutto ciò aumenta la nostra propensione al consumo: se ad un cliente non interessano di frequente i buoni vengono assegnati al cliente successivo, perché questa strategia di marketing, basata – lo si ripete – sul paradosso, si è rilevata vincente.

Anche per l’utilizzo delle tecniche di pensiero creativo si dovrà tener conto della tipologia psicologica che ci si trova di fronte.

Formuliamo qui conclusioni con riferimento alle tecniche di più diffuso utilizzo: è chiaro che tutto quel che affermiamo in merito ha dietro lunghi anni di studio e di osservazione che non si possono esplicitare in un articolo divulgativo.

La richiesta di formulare/scrivere alternative, tipica delle mappe mentali, è gradita ai tipi: manager (tipo 3), perfezionista (tipo 1), diplomatico (tipo 9)[85], romantico (tipo 4)[86]e artista (tipo 7)[87]. Non è invece gradita al tipo eremita (tipo 5)[88]  e allo scettico (tipo 6)[89]. Da verificare è invece con il capo (tipo 8) e l’altruista (tipo 2).

La tecnica dei  6 cappelli per pensare è gradita al tipo manager (tipo 3)[90] e al perfezionista (tipo 1)[91]. Non è gradita ai tipi: altruista (tipo 2)[92], romantico (tipo 4)[93], diplomatico (tipo 8)[94]. È da verificare con le tipologie: eremita (tipo 5) [95], capo (tipo 8), artista (tipo 7), scettico (tipo 6).

Un’attenta valutazione dunque degli aspetti extragiuridici consentirà al legale di utilizzare il giusto canale sensoriale ossia di utilizzare il tipo di linguaggio, il tono ed il timbro più idonei ad essere compreso, di formulare le domande opportune, di scegliere le tecniche più idonee a allargare la base negoziale[96].

Per facilitare la comunicazione tra le parti di una controversia il legale deve saper saggiare il rapporto del cliente con la controparte.

Importante indice in questo senso, lo abbiamo già detto, è anche la coerenza tra le parole pronunciate dal soggetto riguardo alla controparte e gli atteggiamenti corporei.

Se Tizio ad esempio afferma di non avere risentimento nei confronti di Caio, ma mentre parla accavalla le gambe ed incrocia  le braccia, l’informazione verbale non è conforme a quel che dice il suo corpo, e dunque il livello della disputa è diverso rispetto a quello che è stato rappresentato a parole.

La controprova che serva anche a comprendere se il soggetto esprima o meno con riferimento a cose e persone apprezzamenti genuini si può ottenere attraverso la valutazione degli sguardi e della mimica facciale[97].

Uno volta verificato lo stato soggettivo di una contesa, l’avvocato che ha approfondito le dinamiche del conflitto[98] sa che il mezzo che si sceglie per affrontarla non è indifferente[99] quanto ad opportunità e conseguenze; ed il cliente dovrà essere edotto in merito.

È più facile affrontare il negoziato quando le parti sono ancora in una fase di conflitto latente[100], disaccordo[101] e disputa o contrasto[102].

Assai più difficile è negoziare quando vi è estensione del contrasto in conflitto[103] o quando il cliente arriva a lite giudiziaria iniziata.

Si tenga sempre presente che quando il soggetto si rivolge all’avvocato parte già dal presupposto che non sia possibile un negoziato diretto.

Scegliere il negoziato comporta sempre dunque che il cliente sia messo in grado di affrontare al meglio le opinioni che non condivide.

Ci sono poi alcuni elementi che rendono improbabile una soluzione negoziata in quanto collegati o meno alla spirale indicata più sopra.

Così se il soggetto desideri affrontare le vie legali soltanto per stabilire un precedente giuridico, perché la lentezza della causa gli appare, magari anche erroneamente, più conveniente di un accordo, ovvero se il soggetto presenta una reale questione di principio[104] e si chiude in essa, se il suo unico desiderio è infine quello di provare la verità dei fatti.

Ma se si sceglie il giudizio il cliente dovrà sapere che c’è una fortissima probabilità che la controversia diventi uno scontro da vincere o perdere; che inizierà a costruire una “immagine del nemico” e a cercare alleati. Di qui il passo potrebbe essere breve per il lancio di attacchi diretti e personali: l’altra parte potrebbe diventare un problema e non più solo la questione oggetto del conflitto; il cliente, se ciò dovesse accadere, sentirà lesi i bisogni fondamentali di dignità e riconoscimento[105].

Potrebbe poi partire una spirale di minacce e contro-minacce; la versione estrema è quella dell’ultimatum[106]; le parti potrebbero perdere la capacità di iniziativa autonoma, nel senso che potrebbe essere il conflitto a possederli.

E tra un attacco e l’altro si potrebbe arrivare alla conclusione di mettere in conto di subire delle perdite pur di far male all’avversario[107]. Ed in certi casi purtroppo l’obiettivo potrebbe divenire l’eliminazione dell’avversario.

Ogni modello dunque prima ancora che conseguenze giuridiche implica conseguenze pratiche di massimo rilievo che vanno accuratamente soppesate.

Le considerazioni che precedono, se applicate, comportano anche un mutamento del rapporto tra mediatore, avvocato e cliente.

Durante la nostra vita noi non siamo generalmente immersi in diadi, ma in triadi.

Con la triade noi siamo in grado di superare il senso di vuoto, la paura di essere abbandonati che ci insegue sempre e riusciamo a «cambiare».

Il superamento da che cosa dipende? Da ciò che riceviamo all’interno della triade, ossia dal ruolo che ricoprono gli altri componenti per noi.

Anche in mediazione abbiamo a che fare con una triade.

Ora nell’interazione tra tre o più persone si possono avere due ruoli, uno attivo (A parla con B) e uno periferico (A acolta B che parla con C).

Che ruolo ha il consulente nell’attuale mediazione? È un ruolo che lo appaga?

Ognuno di noi possiede per gli altri un potenziale di cambiamento che esprime nella relazione.

Ogni gesto (parola, linguaggio del corpo, paraverbale) può indurre un cambiamento negli altri.

Ma ciò che conta, lo sappiamo bene, è il feed back.

L’altro può: 1) ignorarci (il potenziale di cambiamento cade nel vuoto),  2) assorbire (tocca a me? sì tra un minuto…), 3) amplificare (tocca a me? sì, me ne occupo subito).

L’assorbimento e l’amplificazione danno stabilità alla relazione; l’amplificazione crea la microtransizione ossia il cambiamento.

Gli attori della mediazione per favorire il cambiamento devono costruire un contesto sicuro.

La costruzione di un contesto sicuro nella triade mediatore-avvocato-cliente implica che il mediatore affidi la parte della mediazione al suo avvocato e che il legale coinvolga il suo cliente suelli ipotesi che sono nate dal dialogo nella procedura.

Così si determina quello che tecnicamente in psicologia sociale si chiama svincolo, cioè il passaggio alla nuova dimensione che il mediatore chiama riformulazione del conflitto e che porta ad un progresso della procedura.

Se facciamo riferimento ad esempio alla prima sessione riservata occorre che il mediatore affidi il cliente al consulente che deve almeno aver «assorbito» la riformulazione (sì, ne parliamo dopo), il legale accolga il cliente sulla ipotesi riformulata (Proviamo a…), il legale  coinvolga il cliente – nell’attesa del secondo caucus – sugli interessi riformulati e sulle alternative che li possono soddisfare (amplifichi).

Ciò porta appunto allo svincolo (abbiamo pensato che…), ossia ad un nuovo cambiamento (microtransizione) su cui il mediatore può lavorare.


[1] Negare, evitare, cedere, competere, rimandare, delegare, cooperare.

[2] Decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 (in Gazz. Uff., 5 marzo 2010, n. 53). – Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, modificato in base all’art. 84 del testo del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (in S.O. n. 50/L alla Gazzetta Ufficiale – Serie generale – n. 144 del 21 giugno 2013), coordinato con la legge di conversione 9 agosto 2013, n. 98 (in questo stesso S.O. alla pag. 1), recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia». (13A07086) (GU Serie Generale n.194 del 20-8-2013 – Suppl. Ordinario n. 63)

[3] Contra il Ministero della Giustizia (Circolare 27 novembre 2011) che invece assume “Di talchè, ferma la necessità dell’assistenza legale nelle forme di mediazione obbligatoria, nella mediazione c.d. facoltativa le parti possono partecipare senza l’assistenza di un avvocato)”

[4] Cfr. Legge 15 marzo 1991 n. 3 (LOV-1991-03-15-3) in ultimo modificata dalla Legge 4 luglio 2003 n. 75 in vigore dal 01/01/2004. Lov om megling i konfliktråd (konfliktrådsloven) (LOV-1991-03-15-3) http://www.lovdata.no/all/nl-19910315-003.html

[5] Così si definiscono anche i mediatori. La definizione tiene conto del fatto che si opera con tanti sistemi di composizione alternativa.

[6] Core mediation skills include communicating clearly, listening effectively, facilitating communication among all participants, promoting exploration of mutually acceptable settlement options, and conducting oneself in a neutral manner”. Advisory Committee Comment.

[7] Alla vigilia del Congresso di Bari il prof. Alpa ha indicato questa via nel suo contributo congressuale.

Per la verità nella legislatura appena conclusa era già stato presentato un disegno di legge in data 10 maggio 2011 sulla scorta della normativa francese. Ed in particolare dall’AIAF, dall’UNCC e dall’unione Triveneta dei Consigli dell’ordine degli avvocati. Cfr. http://www.ordineavvocatibelluno.com/pdf/Proposta.legge.pdf. Da ultimo anche un partito politico ha incluso la negoziazione partecipativa nel suo programma elettorale.

[8] Art. 4 c. 3 Loi n° 71-1130 du 31 décembre 1971 portant réforme de certaines professions judiciaires et juridiques

« Nul ne peut, s’il n’est avocat, assister une partie dans une procédure participative prévue par le code civil ».

[9] A cui accede peraltro il gratuito patrocinio. Cfr. art. 10 c. 2 Loi n° 91-647 du 10 juillet 1991 relative à l’aide juridique

<<Elle peut être accordée pour tout ou partie de l’instance ainsi qu’en vue de parvenir, avant l’introduction de l’instance, à une transaction ou à un accord conclu dans le cadre d’une procédure participative prévue par le code civil>>.

[10] Può riguardare anche la separazione ed il divorzio.

Article 2067

Une convention de procédure participative peut être conclue par des époux en vue de rechercher une solution consensuelle en matière de divorce ou de séparation de corps.

L’article 2066 n’est pas applicable en la matière. La demande en divorce ou en séparation de corps présentée à la suite d’une convention de procédure participative est formée et jugée suivant les règles prévues au titre VI du livre Ier relatif au divorce.

[11] Articoli 37 e 43 legge n. 2010-1609 del 22 dicembre 2010. LOI no 2010-1609 du 22 décembre 2010 relative à l’exécution des décisions de justice, aux conditions d’exercice de certaines professions réglementées et aux experts judiciaires.

[12] Article 2065 C.c.

« Tant qu’elle est en cours, la convention de procédure participative rend irrecevable tout recours au juge pour qu’il statue sur le litige. Toutefois, l’inexécution de la convention par l’une des parties autorise une autre partie à saisir le juge pour qu’il statue sur le litige.

En cas d’urgence, la convention ne fait pas obstacle à ce que des mesures provisoires ou conservatoires soient demandées par les parties. »

[13] Article 2066 C.c. «Lorsque, faute de parvenir à un accord au terme de la convention, les parties soumettent leur litige au juge, elles sont dispensées de la conciliation ou de la médiation préalable le cas échéant prévue.»

[14] In Francia dal 1991.

[15] Per approfondire i contenuti non giuridici della presente nota, si possono leggere, senza pretesa di completezza: S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del gesto. emozioni e desideri nascosti nel silenzio del linguaggio non verbale, CISU, 2007.

S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del segno, CISU, 2007

S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del comportamento, CISU, 2007-2012

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S. FREUD, L’Io e l’Es, Bollati Boringhieri, 2009.

M. S. SCARAMUZZA, Elementi di analisi transazionale, in http://www.counselling-care.it/pdf/pdf_AT/AT13.pdf

J. WACHOB, 12 Things Celebs Can Teach You About Meditation, 21 ottobre 2010, The Huffington Post in http://www.huffingtonpost.com/jason-wachob/13-things-you-can-learn-a_b_685634.html .

P. WATZLAWICK – J. HELMICH BEAVIN – D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1971.

[16] Anche se ci sono pronunce dei giudici che iniziano a richiedere una più ampia verbalizzazione.

[17] L’associazione che dal 1878 detta negli Stati Uniti le regole della deontologia per gli avvocati.

[18] Negli Stati Uniti non vige l’assistenza obbligatoria in mediazione. “Representation by an attorney is permitted, but not required, in mediation” recita perentoriamente anche il programma ADA in http://www.ada.gov/medprog.htm.

[19] Negli Stati Uniti non vige l’assistenza obbligatoria in mediazione.  “Representation by an attorney is permitted, but not required, in mediation” recita perentoriamente anche il programma ADA in http://www.ada.gov/medprog.htm.

[20] Different states, courts, and mediation programs may have different mediation rules, so you should ask your attorney about any rules governing your mediation.

[21] In most cases, the parties play some role in deciding how the mediation process in their case will be conducted. Many states, courts, and mediation programs have rules about these procedures, so you should check with your attorney about any rules governing your mediation. The mediator may also have procedures that he or she normally follows. However, some decisions about the mediation procedures may still be up to the parties and the mediator.

Some mediators have web sites or provide bios that indicate their mediation approach.

If you are represented by an attorney, your attorney may know the styles of mediators available for your case and can help you choose one whose style fits your needs.

[22] Will each party provide a memo to the mediator before the mediation session outlining the issues in dispute and whatever other topics the mediator requests?

Will this memo be confidential to the mediator or exchanged with the other party?

Will the mediator ask you to sign an agreement to mediate? If so, your attorney might ask the mediator to provide a copy before the mediation session so you can review it and ask any questions you may have about it.

What information should you bring to the mediation session?

Who will be at the mediation session? Mediation is most effective when each party has in attendance someone with full settlement authority who is knowledgeable and can make independent decisions about the case.

Will anyone participate by video, telephone, or be “on call” if needed?

If a person on your side with authority to settle cannot attend in person, your attorney should discuss this with the mediator before the mediation session.

Should any professionals other than the parties’ lawyers attend the mediation?

This might include financial or technical professionals, among others.

Does the mediator have a prior relationship with anyone who will

be at the mediation (such as parties, professionals, attorneys)? If so, you should tell your attorney as soon as you discover this. Despite the information you disclose, the mediator may still be able to be impartial and helpful but you, the other party, and the mediator will want to know about this from the beginning.

What time will the mediation session begin? How late might the session last?

Where will the mediation session(s) be held?

Will each party present its views in a joint session? If so, what would be

most helpful for you (or your lawyer) to say?

What items should you reserve for a private caucus with the mediator?

What can the mediator do that would be particularly helpful for you?

If the parties reach agreement, who would prepare it?

How much does mediation cost, if anything? How will the parties divide the costs?

[23] If you can participate in selecting the mediator, discuss with your lawyer what experience and qualities in a mediator would be most important in helping the parties resolve their dispute.

If you know of particular mediators, discuss whether any of them have the experience and qualities you think would be most helpful in your case.

[24] You are more likely to feel satisfied with mediation if you prepare carefully ahead of time. This is especially important if you have never participated in a mediation.

[25] Even if you have mediated many times, it is still important to prepare for each mediation because the issues, parties, and mediators are different in each case.

[26] There is no one best way to prepare for mediation or to mediate. You should work closely with your attorney to prepare for the mediation.

[27] In addition to helping you collect relevant information, develop a negotiation strategy, and consider the issues listed below, working together will help you have a common understanding of what to expect of each other in the mediation process. For example, you will want to discuss what roles each of you will play during the mediation.

Think carefully about the issues listed below in preparing for mediation. You may not be able to give a definite answer to some of the following questions and your answers may change during the mediation process, but it is still helpful to consider seriously these questions ahead of time.

What is the conflict really about? Are some of the problems caused by mistrust or miscommunication? What would you like to accomplish at the mediation? What does the mediator need to understand to help you accomplish your goals? What does the other party need to understand? What would you need to feel satisfied with the outcome? What do you think that the other person needs to feel satisfied? This may involve the  exchange of monetary or nonmonetary value. If you can reach an acceptable agreement in mediation, would you want to have any relationship with the other party after the dispute is resolved? What issues do you and the other party agree about? What issues do you disagree about? What information, documents, cases, or rules might cause the other party to change his or her mind about the issues in dispute? What might cause you to change your mind?

[28] In mediation, you may hear things that you will disagree with and the mediator may test your views about what is realistic. Although you may think that the other party is wrong about some things, you will be more successful if you try to understand the other party’s views. Listen carefully to what he or she says and look for things that you agree on. This may cause the party person to try to understand your views and it may help you reach an agreement. When you disagree, it helps to be respectful toward the other party, which may cause him or her to treat you respectfully as well.

Keep an open mind and be willing to consider various options for settlement.

[29] Even if your mediator gives you suggestions  or opinions, you always have the right to disregard those suggestions and opinions and to make your own decisions, including a decision not to accept a particular offer or not to reach any settlement.

[30] If you do not resolve all the issues at a mediation session, think about whether your attorney should follow up with the mediator by phone or to schedule another mediation session. Sometimes parties need more information or time to think about a situation before they are ready to finally resolve a dispute.

[31] Your mediator is likely to discuss all these aspects of confidentiality with you but, if he or she does not, be sure to ask.

[32] If the parties reach an agreement settling their dispute, the mediator may help the parties put it in writing.

If attorneys are representing the parties, the attorneys typically draft any written agreement.

[33] Ma le considerazioni che faremo, salvi gli obblighi di informativa di cui all’art. 4 c. 3 del decreto legislativo propri esclusivamente del legale, valgono per tutti i professionisti.

[34] “Tante carte e documenti accatastati alla rinfusa, tanto da occupare quasi tutto lo spazio del piano di lavoro, non rivelano un individuo super indaffarato, ma al contrario: chi siede a quella scrivania non riesce ad avere la giusta efficienza e metodo di lavoro”. Anna Guglielmi, Il linguaggio segreto del corpo. La comunicazione non verbale, Piemme, 2007, p. 37.

[35] Cfr. ANNA GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 43.

[36] Anche perché in media un uomo parla 10-12 minuti al giorno ed una frase media dura non oltre 10 secondi e mezzo. Il 65% delle interazioni prende la via del corpo (RAY LOUIS BIRDWHISTELL). Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 5.

[37] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 107. Ciò comporta che non ascoltiamo davvero quello che ci viene riferito, ma pensiamo solo a quello che vogliamo dire noi, rendendo difficile la comunicazione.

[38] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 107.

[39] L’aspetto paraverbale riguarda le qualità della voce, il modo in cui articoliamo le parole e dunque il registro, il volume, il tono, il timbro, la nasalizzazione, la dizione, la  cadenza, l’affettazione della nostra espressione vocale.

[40] Se mi lavassi i denti ad un funerale il messaggio  sarebbe differente da quello che lancerei se mi lavassi i denti nel bagno di casa.

Il contesto può essere fisico e psicologico.

Un fenomeno può restare inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica.

[41] Che secondo alcuno sarebbe da parificarsi al linguaggio verbale in quanto a percentuale.

[42] Il bambino che ha fatto una marachella spesso nasconde le mani dietro alla schiena; quando diventa adulto questo gesto viene sostituito da un toccamento del naso o del volto, spesso difficile da percepire per un occhio che non sia allenato a farlo. La persona adulta tende invecchiando a ridurre la propria gestualità e la propria mimica facciale. ANNA GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 124.

[43] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 15.

[44] Se il cliente dovesse portarne alla bocca qualcuno, si osservi se lo mangia in fretta. Se così fosse è probabile che lo faccia anche con le cose che ascolterà e che dunque non elaborerà con la sua testa Se invece dovesse scartare l’involucro con pignoleria probabilmente è  persona critica e selettiva. Cfr. A. GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 200-201.

Anche la seduta del potenziale cliente può fornire utili indicazioni: se si siede sul bordo dimostra fretta, impazienza o il desiderio di andarsene, così se si siede sulla metà orientando le gambe altrove; se afferra i braccioli e sposta la sedia indietro vuole mantenere le distanze (M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 102); se mette la caviglia sopra il ginocchio è ostile e rigido sulle sue posizioni,  se tiene le mani ed incrocia le caviglie probabilmente non vuole rivelare una informazione, se si siede a gambe larghissime (uomo) vuole dominare, se si dondola è come dicesse: “io ho già trovato la soluzione, sbrigati a parlare che te la dico” ecc. (Cfr. A. GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 103 e ss.).

[45] Ciò favorisce il rapporto di collaborazione.

[46] Lo sguardo foveale andrà dagli occhi alla fronte del cliente, quello periferico su tutta la sagoma.

[47] L’antropologo EDWARD HALL che ha scoperto il concetto di spazio prossemico ci spiega che la prossemica è “lo studio di come l’uomo struttura inconsciamente i microspazi – la distanza tra gli uomini mentre conducono le transazioni quotidiane -, l’organizzazione  dello spazio nella propria casa e negli altri edifici ed infine la struttura della sua città”. La territorialità è un meccanismo inconscio degli animali che consente la regolazione della diffusione della popolazione e della densità di insediamento. Ogni violazione del nostro spazio vitale o prossemico da parte di uno sconosciuto ci provoca uno stato d’ansia. È stato dimostrato che (ROBSON; KIMES) che un locale in cui i tavoli fossero ad una distanza inferiore al metro avrebbe uno scarso successo commerciale presso gli avventori che non ci trascorrerebbero molo tempo e dunque non spenderebbero più soldi. Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, Sperling & Kupfer Editori s.p.a., 2010, p. 6 e ss.

[48] Da 1 metro e  20 centimetri a due metri.

[49] Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 77.

[50] Si tratta di Naliny Ambady docente di psicologia alla Tufts University di Medford, Massachusetts. Cfr. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 2.

[51] È oggi superata l’opinione di VANDERBILT (1957) per cui la stretta di mano è come il modo di camminare di una persona. Secondo alcuno (PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 90) l’usanza di stringere la mano risalirebbe al Medioevo e in quei tempi stava a significare che coloro che la scambiavano erano disarmati. In tempi decisamente più remoti aveva tutt’altro significato: presso i Greci indicava che il fideiussore di un debito era tenuto a garantirne il pagamento con la propria persona. In ogni caso nella storia ha sempre avuto un importante significato.

[52] Cfr. W. F. CHAPLIN, J. B. PHILLIPS, J. BROWN, N.R. CLANTON & J.L. STEIN, Handshaking, gender, personality, and first impressions.  (2000) Journal of  Personality and Social Psychology, 79, 111-112.

Sino al 2000 non era scientificamente dimostrato, ma era solo un dato di esperienza, che la stretta di mano influisse sulla prima impressione tra due estranei che si incontrano (e quindi nel nostro caso tra un avvocato ed il suo cliente), ma gli studiosi citati hanno dimostrato che se le mani sono calde e asciutte, le strette sono forti, durature, vigorose e complete (stretta di mano detta ferma) e vi è un  contatto con gli occhi , tutto ciò si tradurrà in una impressione più favorevole. La buona impressione che si ricava da una stretta di mano fa sì che le persone, a prescindere dal loro sesso, si comportino in modo estroverso, coscienzioso, piacevole, emotivamente stabile ed aperto. Cfr. W. F. CHAPLIN, Handshaking, gender, personality, and first impressions, op. cit., p. 115.

[53] Una mano asciutta negli uomini  indica socievolezza; una mano bagnata indica sempre una situazione di stress  perché la mano non suda per un aumento della temperatura.

[54] Il tipo di stretta di mano può indicare dominanza nei seguenti esempi: porre una mano sulla spalla dell’interlocutore mentre con l’altra si stringe la sua mano; stringere la mano con il polso rivolto verso il basso o torcendo il polso dell’altro in modo da fargli esporre il palmo; dare la mano tenendo il braccio rigido; tirare la mano dell’altro verso il basso; piegare il gomito e tirarlo all’indietro nel dare la mano, stringere molto una mano .

Così come può palesare sottomissione piegare la schiena nel dare la mano o ancora può significare rifiuto del contatto  stringere la mano dando solo la punta.

[55] L’intensità della forza imposta alla stretta può fornire utili elementi, perché si ritiene legata alla personalità: una stretta salda e decisa è tipica di una personalità dominante, sicura di sé e razionale; se la pressione è sovrabbondante potrebbe però essere indice di un carattere aggressivo ed esibizionista.

Le persone che invece porgono la mano in modo molle e snervato sono di solito riservate, introverse e diffidenti.

Anche l’individuo in depressione ha la tendenza a stringere debolmente. M. PACORI, La stretta di mano: un saluto che parla per noi. In Salute &, agosto 2001, n. 8, anno 2, pag. 37-38.

[56] Se la stretta è avvolgente siamo in presenza di quello che la psicologia analogica chiama “cerchio”, se è a  tenaglia di un triangolo. Le personalità cerchio e triangolo sono collaborative.

[57] Se la stretta è penetrativa siamo in presenza di una personalità asta che non è collaborativa. Ha il significato di una sfida.

[58] La qualcosa è complicata, ma non è del tutto impossibile dato che lo studio già citato ed effettuato su 112 individui ha dimostrato che le mani delle persone mantengono invariate nel tempo solo la temperatura (caldo e freddo), la secchezza od umidità e la struttura (rigidità ed elasticità).

Cambiano insieme invece nel tempo cinque variabili: vigore, resistenza, durata, contatto degli occhi e completezza della stretta.

[59] Il conflitto invischiato appartiene a persone che “ce l’hanno col mondo” e a cui non interessa risolvere il conflitto. Ciò perché un rapporto conflittuale è meglio che un’assenza di rapporto.

Alla base c’è la necessità di essere presi in considerazione. Dal momento che queste persone non vogliono risolvere il conflitto la conciliazione od altro mezzo di composizione non rientra nelle loro priorità.

[60] Cfr. S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO, Il potere del segno, Cisu Editore, 2007, p. 26.

[61] Rule 2. 1 (Advisor) delle Model Rules of  Professional Conduct (il codice deontologico degli avvocati americani).

[62] Ognuno ha una propria visione del mondo. Non esiste un’unica realtà. Noi selezioniamo le informazioni in modo coerente con noi stessi. C’è chi sostiene che non esista una informazione che si possa considerare oggettiva (MATURANA).

Gli individui differiscono ancora tra di loro anche per i processi di ragionamento che hanno imparato ad usare: i ragionatori esperti si basano soprattutto sulle regole di inferenza.

Una regola di inferenza  stabilisce che una particolare proposizione deve essere vera, posto che siano vere certe altre proposizioni. Se ad esempio sono vere queste due affermazioni: 1) “il Milan o l’Inter hanno vinto lo scudetto del 2010” 2) Il Milan non ha vinto lo scudetto del 2010; ne seguirà in conclusione che l’Inter ha vinto lo scudetto del 2010.

Chi non ha studiato logica formale, tende a ricorrere a modelli mentali ossia ad utilizzare «una copia mentale» interna che possiede la stessa struttura di rapporti del fenomeno che rappresenta” .

[63] Gli uomini e le donne hanno modi fisiologicamente e psicologicamente diversi di percepire ed approcciare alla realtà.

[64] Le persone si possono dividere in tre categorie a seconda del canale con cui interagiscono con la realtà: visivi, auditivi e cenestesici.

[65] Pregiudizi e stereotipi.

[66] Si tratta di un acronimo inglese che sta per Visual Auditory kinesthetic

[67] Armonia, suonare, cantare, zitto, recitare, ascoltare ecc.

[68] Ad esempio: esprimiti meglio, fatti capire, chiamami, descrivi meglio, siamo in sintonia, sono tutt’orecchie, maniera di parlare, prestare attenzione, potere delle parole ecc.

[69] Ad esempio: vedere, colorato, visionare, ammirare, visualizzare, fissare ecc.

[70] Ad esempio: è chiaro come il sole, mi pare che, riempiti gli occhi, è chiaro che, la vediamo allo stesso modo, vedila cosi, ho avuto un flash, è sotto il tuo naso, è evidente che, questo è il quadro della situazione, a occhio nudo ecc.

[71] Percepire, pungente, urtare, solido, correre, toccare, sentire ecc.

[72] Ad esempio: mettere le carte in tavola, tenersi in contatto, momento di panico, togliersi un peso dalle spalle, essere spaventati, soppesare bene i fatti, me lo sento dentro, non siamo affini, l’ho passata liscia, toccare con mano.

[73]

Tipologia                       Vak  A  Vak  E      Mai

1. Perfezionista                V              A            K

2. Altruista                        K              V             A

3. Manager                        V              K             A

4. Romantico                    K              A            V

5. Eremita                          A              V             K

6. Scettico                          A              V             K

7. Artista                            V              K             A

8. Capo                            A          K    V

9. Diplomatico                 K              A            V

[74] Orientativo, strategico, riflessivo, lineare, secondo la classificazione di Karl Tomm. Cfr. K. TOMM, Intendi porre domande lineari, circolari, strategiche o riflessive?, in Bollettino n. 24 del 1991 del centro Milanese di terapia della Famiglia, p. 1.

[75] Possiede un forte senso etico.

[76] Soffre di doverizzazioni.

[77] Si cala per natura nella dimensione empatica.

[78] Il manager non ha un senso etico individuale, ma quello sociale del momento; non si mette dunque nei panni degli altri se ciò “non va di moda”; dunque la domanda è inutile, se non dannosa.

[79] L’eremita non segue regole etiche se non sono logiche: dunque rivolgergli una domanda ipotetica è un grosso rischio.

[80] Senza contare che il tono di voce può alterare profondamente la finalità di una domanda e quindi la sua tipologia.

[81] Le aspettative mancate si verificano quando una persona si aspetta da un’altra un certo comportamento che non viene tenuto; il soggetto resta in attesa di più comportamenti senza dire nulla e ad un certo momento esplode il conflitto.

Questa aspettativa viene rappresentata dal soggetto come un dato oggettivo del conflitto; il professionista (e poi il mediatore) deve stare attento a non lavorare sul piano oggettivo, perché diversamente il conflitto non verrà risolto.

[82] Sono quelle domande a cui non si può rispondere semplicemente con un sì o con un no.

[83] Per “domande circolari” si intendono le domande che inducono l’interlocutore ad individuare possibili connessioni tra gli eventi che includono il problema. Esse si contrappongono alle domande “lineari” che invitano a spiegazioni deterministiche del problema presentato.

[84] In particolare Glasl (1997).

[85] Aiuta la sua concentrazione.

[86] La tipologia è creativa per definizione.

[87] Ma si tenga conto che è dispersivo: ciò anche se si utilizza il brainstorming.

[88] Tende a non esternare quel che sa.

[89] Ha paura che dall’elenco possa nascere una fregatura.

[90] Si tenga però conto che predilige le soluzioni a breve termine.

[91] Al contrario del manager predilige le soluzioni a lungo termine.

[92] Ha difficoltà di analisi.

[93] Vive in un mondo ideale.

[94] Non riesce a staccarsi dalle idee altrui.

[95] Accetta solo il risultato che si è costruito.

[96] Ciò lo aiuterà ad entrare maggiormente in empatia con il potenziale affidato, ossia a sentire ciò che il cliente sente e dunque a capire sino in fondo quali possono essere i suoi reali bisogni. Sono questi ultimi che dovranno trovare coronamento in mediazione od in negoziazione.

Dall’attenzione al linguaggio del corpo del cliente il legale potrà percepire lo stato emozionale: se lo stesso si trovi in tensione o se provi sensazioni di gradimento o rifiuto; anche ciò aiuterà il legale ad entrare in empatia.

[97] Se rivolgo una domanda ad un soggetto e questi per rispondermi guarda alla mia destra starà ricordando un fatto, se guarderà alla mia sinistra è possibile che stia inventando o che stia mentendo.

[98] Ci sono degli stadi del conflitto che il legale deve essere in grado di individuare per suggerire al cliente che il conflitto ha una determinata e in qualche modo prevedibile escalation. Il conflitto si autoalimenta, comporta una catena di reazioni che portano appunto alla escalation (entropia).

[99] Le tappe del conflitto che descriveremo sono tratte liberamente dal diagramma di Glasl e corrispondono pienamente a ciò che si verifica nella pratica professionale. Cfr. F. GLASL, Confronting Conflict, A First-Aid Kit for Handling Conflict, Hawthorn Press, 1999.

[100] Si verifica quando gli elementi manifesti, se ce ne sono, coprono il conflitto reale (ad es. interruzione della relazione).

[101] Disaccordo = tensione.

[102] Sussiste un contrasto quando c’è: a) differenza di vedute od opinioni; b) rispetto dell’altro e dei suoi bisogni; c) mancanza di disagio emotivo; d) uno scopo comune.

[103] Sussiste un conflitto quando c’è: a) differenza di vedute ed opinioni; b) un attacco dell’altro, dei suoi bisogni e valori; c) rabbia ed ostilità; d) sospetto di inautenticità sugli obiettivi dichiarati.

[104] Bisogna vedere se sono veri e propri valori ed allora non sono negoziabili. Spesso sono solo atteggiamenti che si cerca di giustificare con un principio: in tali casi si può lavorare sul conflitto.

[105] Lo stesso legale potrà vedere il collega che difende la controparte come un nemico da abbattere processualmente e sentirsi emotivamente e direttamente coinvolto.

[106] Lo troviamo spesso anche nella corrispondenza dei legali.

[107] Situazione questa tipica delle liti familiari.

L’avvocato accompagnatore: una nuova frontiera.

Le conoscenze di diritto sostanziale e processuale sono un elemento imprescindibile che connota l’avvocato e la sua professione.

E dunque dovremmo poterle considerare un dato acquisito anche per gli avvocati che vogliano diventare accompagnatori alla mediazione o a qualsivoglia altro strumento alternativo per la risoluzione dei conflitti.

Non è un caso che nelle Corti statunitensi gli avvocati che vogliano diventare “neutri”[1] del panel giudiziario, svolgano percorsi differenziati afferenti ad abilità che nulla hanno a che spartire con il diritto.

Nel Northern district of California ad esempio ai mediatori avvocati si richiede di aver svolto attività da procuratori per almeno 7 anni e necessita loro inoltre la conoscenza del contenzioso civile in un tribunale federale.

Gli anni aumentano a 15 se all’avvocato è richiesto di fare il valutatore neutrale.

In aggiunta a ciò i “neutri” devono possedere spiccate abilità di base[2]:

  • saper comunicare chiaramente,
  • saper ascoltare in modo efficace,
  • saper facilitare la comunicazione tra tutti i partecipanti,
  • saper proporre l’esplorazione di opzioni di accordo che trovino il consenso di tutte le parti,
  • ed in ultimo saper condurre se stessi in modo neutrale.

Queste abilità dell’avvocato mediatore dovrebbero essere patrimonio di ogni uomo perché in fondo la nostra vita è essa stessa comunicazione e negoziazione continua.

Ma a maggior ragione dovrebbero essere patrimonio di ogni avvocato o di ogni professionista della consulenza a prescindere dalle sue scelte ed ideologie sulla professione.

La conoscenza di queste abilità, infatti, può trovare esplicazione nella pratica professionale anche per coloro che non pensino affatto alla mediazione civile e commerciale.

Il Consiglio Nazionale Forense sta spingendo[3] da ultimo per portare nel nostro paese la negoziazione assistita.

In altre parole si fa riferimento alla negoziazione partecipativa che a fine del 2010 è stata varata in Francia con la previsione di assistenza per i soli avvocati[4].

L’istituto prende avvio da un convenzione di procedura partecipativa[5] che è un accordo[6] mediante il quale le parti di una controversia che non ha ancora visto l’intervento di giudice o di un arbitro si impegnano ad operare congiuntamente ed in buona fede per risolvere amichevolmente loro controversia.

L’accordo è a tempo determinato[7] e determina l’irricevibilità da parte del Tribunale della controversia, salvo che per gli atti urgenti[8].

L’accordo rinvenuto può essere invece omologato e divenire titolo esecutivo.

La negoziazione partecipativa presuppone che i legali abbiano una buona conoscenza delle regole della negoziazione ed infatti, la legge prevede che se non si trovi un accordo, le parti possano adire il giudice senza la necessità di una preventiva mediazione[9].

Il legislatore francese parte cioè dal presupposto che se la controversia è affrontata con dovizia da preparatori esperti e condotta da negoziatori esperti, la mediazione potrebbe risultare sovrabbondante qualora essi non riescano a concludere l’accordo.

Tale convinzione appare a chi scrive discutibile, perché l’esigenza del mediatore  nasce proprio nel momento in cui le parti o i loro rappresentanti non riescano a trovare una soluzione che porti al comune soddisfacimento.

Ad ogni modo il principio che mi interessa qui sottolineare e che è sottinteso nelle pieghe della norma è un altro: una procedura di ordine negoziato necessita di adeguata preparazione e negoziazione per tradursi in un accordo.

La procedura di convenzione partecipativa non coincide, in altre parole, con la semplice omologazione della transazione tra avvocati che è presente peraltro da parecchi anni in diversi paesi europei[10].

È qualcosa di profondamente diverso, pena, in difetto, l’inutilità di mettere in campo questo nuovo congegno giuridico.

La negoziazione partecipativa presuppone nozioni[11] che l’avvocato non impara solitamente sui banchi universitari e che sono differenti dal predetto bagaglio di diritto procedurale e sostanziale.

Unitamente alla mediazione civile e commerciale la negoziazione partecipativa  prende a piene mani le sue regole dalla negoziazione e dunque l’accompagnatore alla procedura di mediazione, piuttosto che l’assistente nella procedura partecipativa non si possono  permettere di ignorarle.

Certo questo percorso determina in primo luogo un cambiamento di mentalità.

Saper ascoltare in modo efficace significa che il legale[12] prenda in considerazione l’eventualità di cambiare il suo modo di fare consulenza.

La tradizionale consulenza ha come effetto finale la “depurazione” dell’esposizione dell’assistito nella prospettiva di dover affrontare un processo.

Al giudice, infatti, non possono che essere sottoposte posizioni giuridiche ed i legali sono abituati da sempre a formulare le pretese dei loro clienti in termini di diritti od interessi riconosciuti dall’ordinamento (diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi diffusi ecc.).

In relazione a tali diritti od interessi riconosciuti dall’ordinamento il cliente viene poi considerato come creditore o debitore, proprietario od inquilino, mutuatario o mutuante e così via.

La negoziazione e dunque l’accompagnamento ad un procedura invece considera sia le posizioni giuridiche canoniche, sia i desideri, i valori, i bisogni, le credenze del cliente che ordinariamente il legale non indaga e che tantomeno rappresenta in giudizio.

In negoziazione inoltre le caselle del rapporto giuridico (debitore, creditore, proprietario, locatore, conduttore ecc.) possono mutare e comunque perdere di significato.

Il legale è inoltre abituato tradizionalmente a:

a) considerare in prima battuta il punto di vista del cliente,

b) secondariamente i fatti che derivano dalle carte e che attengono al passato della controversia (e talvolta al presente),

c) a tentare tra di essi una conciliazione,

d) e quindi ad applicare al prodotto le norme e la giurisprudenza per sviluppare ed articolare una tesi difensiva che in qualche modo rafforzi il punto di vista di partenza.

Il legale accompagnatore non lavora solo con l’esposizione del suo cliente, ma con quella di tutte le parti coinvolte: il punto di vista iniziale, precipuo oggetto di cura dell’attività difensiva, può dunque venir abbandonato qualora ciò si riveli conveniente per il cliente.

Ciò può avvenire anche nel processo, ma il mutamento non ha solitamente di mira l’interesse altrui e può comunque essere operato solo nella fase iniziale del processo.

In negoziazione non ci sono che i limiti che appongono le parti.

I fatti passati rivestono poi un significato marginale, perché ciò che conta in negoziazione è soprattutto il presente ed il futuro dei rapporti tra le parti: il passato può al limite essere anche “cambiato” se ciò si rivela conveniente per coloro che negoziano.

Il legale accompagnatore non ha la necessità primaria di sviluppare una narrazione che sia coerente con un impianto normativo.

La priorità è quella di trovare la migliore soluzione che possa soddisfare il suo cliente e nel contempo le esigenze della controparte.

Una volta trovata una o più soluzioni che soddisfino entrambe le parti del rapporto si porrà naturalmente il problema della legalità della scelte operate, ma ciò riguarderà l’intero nuovo rapporto che si rinvenga tra le parti.

Questa prospettiva impone che muti ciò che l’avvocato accompagnatore ha necessità di “ascoltare” durante l’incontro col suo cliente.

Potrebbe, infatti, non essere produttivo focalizzare l’attenzione esclusivamente sugli elementi della fattispecie che comportano una valutazione in termini di ragione o torto.

Perché ci sono elementi positivi che sono comuni alle parti come l’amicizia, la stima professionale ecc.,  che possono costituire una base per il presente ed il futuro dei rapporti e dunque per spegnere la controversia e trasformarla in una occasione di crescita.

Ogni relazione umana ha una testa ed una croce e il conflitto le tiene unite come in una moneta: sta ai comunicanti trasformare positivamente, ossia verso la testa, il magnete conflittuale[13].

Se tanto per fare un esempio Tizio e Caio stanno controvertendo su un contratto di appalto potrebbe essere poco utile per l’avvocato di Tizio verificare che Caio appaltatore abbia o meno rispettato gli obblighi contrattuali, mentre potrebbe dare una svolta alla vicenda l’informazione che il suo cliente ha da effettuare altri lavori nella sua proprietà, opere che se non ci fosse stata controversia, avrebbero potuto essere realizzate dall’appaltatore.

Nella consulenza tradizionale il cliente pone poi di solito un quesito e l’avvocato fornisce una risposta scritta od orale.

La risposta ha di solito carattere tecnico sotto vari profili (oggetto, linguaggio, formalità ecc.). Conscia di tale evidenza L’American Bar Association detta all’avvocato una regola d’oro in materia di consulenza.

Nel rendere la consulenza l’avvocato “può riferirsi non soltanto alla legge, ma alle altre considerazioni come ai fattori morali, economici e sociali e politici, che possono rilevare per la situazione del cliente[14].

Il commento alla regola  ci spiega che:

  • un consulto legale formulato in termini strettamente giuridici può avere scarsa utilità, specialmente quando considerazioni pratiche, come il costo o gli effetti sulle persone, sono predominanti;
  • un cliente può chiedere espressamente od implicitamente un consulto strettamente tecnico;  quando tale richiesta viene effettuata da un cliente esperto in questioni legali, l’avvocato può accettare e prenderlo alla lettera. Quando tale richiesta viene effettuata da un cliente inesperto in materia giuridica, tuttavia, la responsabilità dell’avvocato come consulente può ricomprendere che egli indichi che possono essere coinvolte altre considerazioni rispetto a quelle strettamente legali.

E dunque per l’American Bar Association in primo luogo il contenuto giuridico della consulenza che noi in Italia usualmente diamo per centrale, potrebbe rivelarsi di scarsa utilità e  in ogni caso il diritto dovrebbe essere inserito in una cornice più ampia.

Il più delle volte accade tra l’altro che il cliente non professionista del diritto comprenda solo una piccola parte di quanto ha ricevuto in consulenza.

Ma la preoccupazione primaria del cliente è in fondo quella che l’avvocato si prenda in carico il problema e quindi nella maggior parte dei casi il cliente si “accontenta” di quel poco che ha compreso e ritenuto.

Tale atteggiamento abbastanza usuale può dare luogo nel tempo a malintesi che possono minare gravemente il rapporto fiduciario.

I malintesi peraltro si verificano anche qualora l’avvocato si sforzi di utilizzare un linguaggio alla portata del cliente perché incidono inevitabilmente sul messaggio alcuni elementi:

  • i cosiddetti filtri (problemi fisici e psicologici, soggettività[15], sessualità[16], filtri neurologici[17] e sociali[18]) propri dell’emittente e del ricevente,
  • ed alcune distorsioni del messaggio comunicativo (generalizzazioni che nascondono rabbia e rancore, aspettative mancate ecc.).

Dobbiamo sempre tenere presente che quando comunichiamo più del 50% della comunicazione è visiva (cioè dipende dall’aspetto della persona che parla), circa il 40% è relativa al tono di voce (a come il parlante si esprime) e quasi il 10% è relativa al contenuto (a quello che il parlante ha realmente detto).

Da ciò consegue che il 90 % della comunicazione potrebbe prestarsi all’equivoco.

Circa il contenuto si deve essere inoltre consapevoli del fatto che, proprio per la presenza dei filtri e delle distorsioni della comunicazione, se Tizio vuol dire il 100% in realtà riesce a dire il 70%.

Caio che ascolta a sua volta recepisce  il 50%, capisce il 30% e ricorda il 20%.

Da tutto ciò consegue che un mero e semplice ascolto delle parole, specie se specialistiche, comporta davvero una comprensione molto ridotta del messaggio comunicativo.

Saper comunicare chiaramente, significa dunque per l’avvocato prendere massima cura di come viene recepito il messaggio dal cliente.

Per far ciò non basta semplificare il proprio linguaggio, come si potrebbe credere.

Bisogna porre attenzione al verbale, paraverbale e al linguaggio del corpo proprio e di chi si affida allo studio.

Dalla postura, dallo stazionamento del respiro, dal tono e dal ritmo della voce e dai verbi utilizzati nell’esposizione, il legale potrà già ricavare indicazioni se il soggetto che si trova davanti sia visivo, auditivo o cenestesico (VAK[19]).

Ognuno di noi privilegia un determinato canale (visivo, cenestesico, auditivo) per esprimersi.

Ogni canale VAK comporta l’uso di un particolare lessico e di un peculiare uso della voce: se l’avvocato ad esempio fosse auditivo per natura parlerebbe ad una velocità e ad un tono medio, e utilizzando parole[20] e locuzioni[21] attinenti ai suoni e rumori; ma se incontrasse un cliente visivo dovrebbe utilizzare parole[22] e locuzioni[23] che hanno a che fare con le immagini  ed avere un eloquio rapido a tono abbastanza alto, diversamente il suo interlocutore farebbe una gran fatica per comprenderlo.

Tale indicazione peraltro vale anche per l’attività di udienza dell’avvocato e per il confezionamento degli atti processuali: se il giudice è cenestesico, l’avvocato dovrà parlare con tono di voce basso e lentamente ed utilizzare parole[24] e frasi[25] che hanno a che fare con il senso del tatto e del gusto; l’utilizzo delle parole di riferimento comporta che il giudice legga i documenti difensivi con maggior piacere ed attenzione.

Peraltro ai diversi VAK corrispondono anche determinate posture che possono aiutare il consulente nella individuazione del canale del cliente, dell’avvocato, del giudice, del cancelliere e chi ne ha più ne metta.

Il visivo ha di solito una postura eretta, spalle alzate e collo proteso, l’auditivo tiene facilmente una posizione “telefono”(corpo e testa leggermente inclinata con la mano vicino l’orecchio) e le spalle sono poco incurvate, il cenestesico tiene una posizione più inerme: il corpo e testa sono perennemente orientati verso il basso.

La corretta individuazione dei VAK può poi aiutare a verificare, unitamente allo sguardo, se il racconto che il cliente fa è veritiero: non certo per poi accusarlo, ma per rassicurarlo del fatto che il rapporto fiduciario impone il più assoluto riserbo.

Ancora l’individuazione corretta dei VAK porta ad individuare a grandi linee le possibili personalità che appartengono una persona attraverso l’uso combinato con l’enneagramma.

L’esperienza ha insegnato allo scrivente che l’enneagramma è uno strumento che può rivelarsi assai prezioso per l’avvocato o in genere per il consulente.

Si tratta di un’antichissima dottrina forse formata in Caldea nella notte dei tempi e che nella organizzazione attuale dovrebbe risalire a Pitagora: essa individua 9 tipologie psicologiche a cui un uomo o una donna possono appartenere.

Il grande matematico le indicava solo coi numeri, mentre noi utilizziamo dizioni moderne: Perfezionista (tipo 1), Altruista (tipo 2), Manager (tipo 3), Romantico (tipo 4), Eremita (tipo 5), Scettico (tipo 6), Artista (tipo 7), Capo (tipo 8), Diplomatico (tipo 9).

Questo strumento si presta a diverse utilizzazioni tra cui la terapia, ma il suo uso non comporta certo che l’avvocato invada il campo dell’operatore psicologico.

Al legale accompagnatore è utile in quanto ad ogni tipologia sono gradite o sgradite appunto determinate domande oppure l’uso di determinate tecniche creative che possono essere di aiuto per allargare la base negoziale.

I  VAK sono collegati a queste tipologie in questo senso: ogni personalità può possedere in situazione di stress (VAK A) un determinato VAK e non un altro; lo stesso possiamo dire in situazione di riposo (VAK E) che difficilmente si raggiunge in consulenza; ogni personalità non può mai avere un determinato VAK. Per cui in definitiva ogni VAK corrisponde a tre personalità (in ogni stato) che andranno indagate con le opportune domande[26].

Le domande in genere costituiscono la base della consulenza dell’avvocato accompagnatore perché servono ad individuare quali siano gli elementi principali in gioco: le carte, infatti, non raccontano che quello che è stato, non sempre identificano i  desideri del cliente; addirittura accade spesso che il cliente non sappia che cosa vuole esattamente dal suo avvocato.

Le domande non sono mai neutre, né per chi le fa né per chi deve rispondere[27].

La domanda ipotetica o riflessiva, ad esempio va utilizzata con cautela: è gradita al perfezionista (tipo 1)[28], allo scettico (tipo 6)[29] e al romantico (tipo 4)[30]. Non è gradita se rivolta al manager (tipo 3)[31] e all’eremita (tipo 5)[32].

È da verificare, quando si consideri strettamente necessario, con le tipologie: capo (tipo 8), altruista (tipo 2), diplomatico (tipo 9) e artista (tipo 7).

In consulenza la decisione preliminare che incombe sul legale come su qualsivoglia professionista del resto, è quella di accettare o meno l’incarico, in poche parole di accettare chi si rivolge al suo studio come cliente.

Per prendere una decisione a proposito può essere importante l’analisi dei movimenti  principali delle mani del nostro interlocutore.. Dalla gestualità il legale potrà, infatti, ricavare se il soggetto possiede una personalità cooperativa: ciò ha un senso soprattutto per l’uso dei mezzi di ordine negoziato che sono fondati essenzialmente sulla collaborazione delle parti, ma tale constatazione sarebbe comunque preziosa anche con riferimento allo sbocco contenzioso.

Ci sono poi soggetti che sono preda di un conflitto invischiato, ossia sostanzialmente vivono per litigare.

Spia di tale conflitto è ad esempio l’arrivo in studio con un ricco dossier di sentenze e documenti rinvenuti nelle sedi più disparate, il pretendere da subito di insegnare al legale quella che è la via migliore per affrontare la controversia.

Con tali soggetti qualsiasi percorso potrebbe rivelarsi problematico e bisogna andare cauti nel proporlo [33].

Una volta che il professionista ha sciolto la riserva in senso positivo è necessario verificare a che punto sia arrivato il conflitto tra l’assistito e potremmo dire per praticità la controparte.

Ci sono in altre parole da compiere valutazioni che non sono strettamente giuridiche circa lo strumento che potrebbe rivelarsi più idoneo e che non riguardano tanto la fattispecie sottoposta al professionista, quanto i soggetti coinvolti.

In particolare vi sono da combattere gli elementi in base ai quali il messaggio viene distorto.

Essi riguardano sia la comunicazione del legale sia quella del cliente.

Si badi bene che l’interazione tra due persone ha di regola come presupposto la circolarità: ciò che il legale afferma costituisce stimolo per la comunicazione del cliente che a sua volta costituisce risposta e stimolo per la comunicazione del legale e così via.

La distorsione della comunicazione inficia dunque tutto il rapporto come un gatto che si morde la coda.

Per rompere il circuito vizioso il legale ha a disposizione un mezzo formidabile che attiene sempre alle domande che può rivolgere al cliente.

Il modo di formulare le domande tuttavia non è mai neutro per il cliente, lo abbiamo detto.

Nel senso che ad ogni tipo di domanda si ottiene un determinato effetto[34].

Per verificare ad esempio se quanto racconta il soggetto è un dato oggettivo su cui il legale può lavorare, ovvero nasca da un pregiudizio o da una percezione selettiva, se non sia  frutto di un malinteso o di emozioni temporanee (come rabbia e paura, che sono le più frequenti) o semplicemente di aspettative mancate[35], si possono ad esempio formulare domande aperte[36] e circolari[37].

Accade frequentemente che una persona si rivolga ad un avvocato in virtù della tattica del fatto compiuto[38], ossia sia arrivato al punto di ritenere che il dialogo con la controparte non serva ad alcunché.

E ciò in virtù appunto di una percezione selettiva, ossia della erronea convinzione basata su un atteggiamento isolato della controparte che la stessa gli sia ostile (ad esempio un mancato saluto, una risposta sopra le righe, una telefonata poco cordiale, ecc.).

Oppure può accadere che il cliente non abbia nemmeno provato a risolvere la sua controversia con il negoziato diretto.

Mentre in quest’ultimo caso l’avvocato ha un ampio margine di manovra, nella prima situazione il quadro si restringe perché gli studi dicono che siamo in una fase win-lose, ossia in una fase dove ormai ci si è convinti che l’unica scelta possibile sia quella di vincere contro un nemico.

Ma così come farebbe un buon mediatore anche l’avvocato può essere in grado di disinnescare le percezioni selettive tramite le domande opportune e senza giudicare quel che il cliente dice, poiché per questo ultimo ciò che riferisce assume i connotati della oggettività.

L’intento del legale è in relazione a ciò quello di separare il problema dalla persona del suo assistito e da quella della controparte, perché diversamente la questione non può essere affrontata in modo lucido.

Se le domande però non danno buon esito ed il soggetto rimane radicato sulle sue posizioni, i margini per un intervento efficace nell’ambito del negoziato si riducono.

Le tecniche creative rivestono poi un’importanza determinante per la preparazione di uno strumento di negoziato.

In ciò si percepisce la differenza abissale tra l’oggetto della transazione e l’accordo di mediazione.

Nello schema della transazione ciascuna delle parti rinuncia a qualche cosa; l’accordo di mediazione invece parte da presupposti opposti nel senso che la procedura è tesa ad incrementare le risorse in gioco.

Tale incremento si gioca sull’applicazione della migliore e più opportuna tecnica di creatività.

E siccome ogni tecnica comporta che i partecipanti si mettano in gioco completamente non è detto che vi possa essere sempre adesione all’utilizzo.

Ci sono tecniche che ad esempio partono da, quando addirittura non si traducono in un paradosso.

Per incrementare le vendite nei supermercati si è partiti a suo tempo dal presupposto paradossale che fosse il grande magazzino a dover pagare il cliente per l’acquisto effettuato.

In conseguenza di ciò quando andiamo al supermercato oggi riceviamo buoni sconto per la benzina,  bollini per collezionare vari prodotti ecc.; tutto ciò aumenta la nostra propensione al consumo: se ad un cliente non interessano di frequente i buoni vengono assegnati al cliente successivo, perché questa strategia di marketing, basata – lo si ripete – sul paradosso, si è rilevata vincente.

Anche per l’utilizzo delle tecniche di pensiero creativo si dovrà tener conto della tipologia psicologica che ci si trova di fronte.

Formuliamo qui conclusioni con riferimento alle tecniche di più diffuso utilizzo: è chiaro che tutto quel che affermiamo in merito ha dietro lunghi anni di studio e di osservazione che non si possono esplicitare in un articolo divulgativo.

La richiesta di formulare/scrivere alternative, tipica delle mappe mentali, è gradita ai tipi: manager (tipo 3), perfezionista (tipo 1), diplomatico (tipo 9)[39], romantico (tipo 4)[40]e artista (tipo 7)[41]. Non è invece gradita al tipo eremita (tipo 5)[42]  e allo scettico (tipo 6)[43]. Da verificare è invece con il capo (tipo 8) e l’altruista (tipo 2).

La tecnica dei  6 cappelli per pensare è gradita al tipo manager (tipo 3)[44] e al perfezionista (tipo 1)[45]. Non è gradita ai tipi: altruista (tipo 2)[46], romantico (tipo 4)[47], diplomatico (tipo 8)[48]. È da verificare con le tipologie: eremita (tipo 5) [49], capo (tipo 8), artista (tipo 7), scettico (tipo 6).

Un’attenta valutazione degli elementi extragiuridici dunque consentirà al legale di utilizzare il giusto canale sensoriale ossia di utilizzare il tipo di linguaggio, il tono ed il timbro più idonei ad essere compreso, di formulare le domande opportune, di scegliere le tecniche più idonee a allargare la base negoziale[50].

Per facilitare la comunicazione tra le parti di una controversia il legale deve saper saggiare il rapporto del cliente con la controparte.

Importante indice in questo senso è anche la coerenza tra le parole pronunciate dal soggetto riguardo alla controparte e gli atteggiamenti corporei.

Se Tizio ad esempio afferma di non avere risentimento nei confronti di Caio, ma mentre parla accavalla le gambe ed incrocia  le braccia, l’informazione verbale non è conforme a quel che dice il suo corpo, e dunque il livello della disputa è diverso rispetto a quello che è stato rappresentato a parole.

La controprova che serva anche a comprendere se il soggetto esprima o meno con riferimento a cose e persone apprezzamenti genuini si può ottenere attraverso la valutazione degli sguardi e della mimica facciale[51].

Uno volta verificato lo stato soggettivo di una contesa, l’avvocato che ha approfondito le dinamiche del conflitto[52] sa che il mezzo che si sceglie per affrontarla non è indifferente[53] quanto ad opportunità e conseguenze; ed il cliente dovrà essere edotto in merito.

È più facile affrontare il negoziato quando le parti sono ancora in una fase di conflitto latente[54], disaccordo[55] e disputa o contrasto[56].

Assai più difficile è negoziare quando vi è estensione del contrasto in conflitto[57] o quando il cliente arriva a lite giudiziaria iniziata.

Si tenga sempre presente che quando il soggetto si rivolge all’avvocato parte già dal presupposto che non sia possibile un negoziato diretto.

Scegliere il negoziato comporta sempre dunque che il cliente sia messo in grado di affrontare al meglio le opinioni che non condivide.

Ci sono poi alcuni elementi che rendono improbabile una soluzione negoziata in quanto collegati o meno alla spirale indicata più sopra.

Così se il soggetto desideri affrontare le vie legali soltanto per stabilire un precedente giuridico, perché la lentezza della causa gli appare, magari anche erroneamente, più conveniente di un accordo, ovvero se il soggetto presenta una reale questione di principio[58] e si chiude in essa, se il suo unico desiderio è infine quello di provare la verità dei fatti.

Ma se si sceglie il giudizio il cliente dovrà sapere che c’è una fortissima probabilità che la controversia diventi uno scontro da vincere o perdere; che inizierà a costruire una “immagine del nemico” e a cercare alleati. Di qui il passo potrebbe essere breve per il lancio di attacchi diretti e personali: l’altra parte potrebbe diventare un problema e non più solo la questione oggetto del conflitto; il cliente, se ciò dovesse accadere, sentirà lesi i bisogni fondamentali di dignità e riconoscimento[59].

Potrebbe poi partire una spirale di minacce e contro-minacce; la versione estrema è quella dell’ultimatum[60]; le parti potrebbero perdere la capacità di iniziativa autonoma, nel senso che potrebbe essere il conflitto a possederli.

E tra un attacco e l’altro si potrebbe arrivare alla conclusione di mettere in conto di subire delle perdite pur di far male all’avversario[61]. Ed in certi casi purtroppo l’obiettivo potrebbe divenire l’eliminazione dell’avversario.

Ogni modello dunque prima ancora che conseguenze giuridiche implica conseguenze pratiche di massimo rilievo che vanno accuratamente soppesate.

Così come il mediatore non può forzare le parti di una mediazione a restare al tavolo, ma può comunque aumentare le possibilità di una partecipazione volontaria se è in grado di spiegare il suo ruolo ed il funzionamento della procedura[62], allo stesso modo l’avvocato non può in alcun modo costringere il cliente a fruire dei suoi servigi di accompagnatore[63], ma può far comprendere al suo assistito che una decisione ponderata circa la migliore forma di tutela transita il più delle volte da un’assistenza a tutto tondo.

L’assistenza inizia con la consulenza. Ed è dal setting che inizia la consulenza.

Per setting in senso lato s’intende un insieme strutturato di componenti multidimensionali: sapere, norme, poteri, rituali, spazi, strutture, architettonica, oggetti, tempi.

Il setting assume grande importanza in mediazione perché la procedura si fonda sul consenso; il mediatore deve conseguentemente adottare tutte le accortezze perché coloro che mediano si sentano a loro agio.

Ma anche il cliente di un professionista ha l’esigenza di entrare in un ambiente ove può affrontare la sua questione nelle migliori condizioni e del pari il legale ha la necessità di essere messo nella migliore condizione per verificare i diversi parametri che abbiamo visto in precedenza.

Tale verifica si impone come necessario antecedente per far comprendere al legale se e  come essere utile a chi si rivolge al suo studio.

Il tradizionale parere giuridico reso da dietro ad una scrivania (spesso oberata dalle pratiche[64])  potrebbe peraltro rivelarsi poco funzionale al cliente dello studio legale.

Quanto a quest’ultima modalità della consulenza, si può rilevare che inconsciamente due persone sedute frontalmente tendono a dividere il tavolo in parti eguali come per una partita ideale e c’è il rischio che tendano ad assumere un atteggiamento competitivo e quasi di sfida[65].

E dunque è difficile che si instauri un rapporto di tipo collaborativo per la risoluzione della questione.

Inoltre si tenga presente che la comunicazione tra le persone, come abbiamo già fatto notare, non si incentra principalmente sugli aspetti verbali[66].

E anche gli aspetti verbali sono presi in considerazione nella maggior parte dei casi con una prospettiva non sempre utile, ossia per dire la nostra e introdurre l’argomento che ci preme o ci è stato evocato dalle parole dell’interlocutore[67].

Chi vuole comunicare in modo efficace con il proprio cliente dovrebbe invece parlare dopo aver ascoltato il verbale e seguendo il filo conduttore che l’interlocutore stesso gli suggerisce attraverso le sue reazioni non verbali[68].

La maggior parte della comunicazione che avviene in una interazione tra esseri umani dipende da, come abbiamo visto, dal paraverbale[69] e dal linguaggio del corpo; aggiungiamo ora il contesto[70] in cui avviene l’interazione e anche il silenzio[71], aspetto quest’ultimo che si rivela spesso preziosissimo.

Le persone adulte hanno però imparato a controllare abbastanza bene il proprio linguaggio del corpo al di sopra della cintola[72], e dunque chi si basasse soltanto su quello che emerge dal piano di una scrivania, acquisirebbe segnali che potrebbero rivelarsi non corrispondenti a ciò che prova o pensa il cliente veramente.

Le persone adulte, al contrario, non si curano dei segnali che vengono inviati dalla parte inferiore del corpo e non potrebbero nemmeno farlo pienamente, se lo volessero.

Quando ad esempio un messaggio visivo (che deve avere valore emozionale) arriva al talamo che è una sorta di centralino di smistamento dei messaggi nelle varie aree (visiva, linguistica ecc.),  viene dirottato in primo luogo verso l’amigdala.

L’amigdala interviene se ritiene che l’evento assomigli ad un altro da lei censito. Successivamente il talamo invia il messaggio alla corteccia prefrontale che stabilisce se il comportamento dell’amigdala sia stato o meno corretto.

Il processo dura circa un secondo: se la reazione dell’amigdala non è corretta qualcosa però “scappa”, ossia il linguaggio del corpo.

Dallo “scontro” tra amigdala e corteccia prefrontale si produce cioè un brandello di azione originale che è quel che noi chiamiamo linguaggio del corpo.

Questi segnali sono dunque assai importanti per i consulenti perché sono i più “veri”, indicano quello che il soggetto sta pensando realmente.

In linea di massima possiamo dire che le espressioni del viso comunicano quello che la persona prova in un dato momento, mentre i movimenti del corpo fanno capire quanto è intensa l’emozione.

Mentre è possibile controllare in parte la mimica del volto, molto più difficile è controllare i misuratori corporei (effect-display) [73].

Dicevamo che il legale consulente ha bisogno di verificare fin da subito se c’è un rapporto di congruenza tra quello che  sta affermando il potenziale cliente (linguaggio verbale o digitale), la sua mimica facciale ed i messaggi che inviano le gambe e le mani (linguaggio analogico).

Questo perché in primo luogo – prima ancora di capire a che punto è arrivato il conflitto – deve decidere se acquisirlo o meno tra la sua clientela.

La verifica della congruenza tra i segnali del corpo e tra il linguaggio analogico e verbale, potrebbe dunque risultare molto complicata se le persone stanno sedute dietro ad una scrivania, a tutto danno di una ponderata valutazione.

Per risolvere il problema basterebbe attrezzare una parte dello studio per la consulenza:  sarà sufficiente un piccolo tavolino basso per appoggiare la documentazione e magari qualche genere di conforto[74].

Saranno poi necessarie delle poltroncine o sedie di uguale altezza[75] che  rendano possibile la visuale dell’intera sagoma del potenziale cliente[76].

La distanza delle poltroncine andrebbe curata poiché il potenziale cliente vuol vedere rispettato il suo spazio vitale o prossemico[77]: nei rapporti formali con coloro che non sono nostri amici è buona norma quella di non derogare la distanza sociale (che può peraltro variare a seconda della nazionalità del cliente)[78].

Lo spazio per la consulenza potrebbe poi essere ubicato ad una certa distanza dalla porta di ingresso dello stanza adibita a consulenza, di modo che il legale possa controllare l’andatura del potenziale cliente: la lunghezza del passo, l’intensità con cui appoggiamo o pestiamo i piedi per terra tradisce la nostra personalità, l’emozione e tanti altri messaggi; se ad esempio le falcate sono ampie e decise e veloci, potremmo ritenere che abbiamo a che fare con un potenziale cliente collerico, permaloso, pignolo e in perenne rincorsa contro il tempo[79].

Secondo uno studiosa[80] bastano, infatti, soltanto 3 secondi per giungere a conclusioni mirate su un perfetto sconosciuto.

E ciò grazie all’amigdala già citata, una ghiandola del nostro cervello medio, che “ragiona” per sensazioni, sulla base di una percezione olistica, cioè di una impressione globale. Basta un’occhiata e spesso il giudizio è automatico: il nostro cervello provvede a fare una sintesi di tutta una serie di componenti.

Fondamentale appare poi la stretta di mano che si scambia con chi si rivolge al nostro studio[81].

Si deve porre attenzione non solo a come ci porgono la mano, ma a come la diamo noi.

La stretta di mano determina una impressione favorevole che si protrae per la restante parte del colloquio[82].

Può indicare se il nostro potenziale cliente è stressato[83], se cercherà di dominarci[84], se si mostrerà aggressivo o diffidente[85], se sarà collaborativo[86] o meno[87].

E dunque bisogna allenarsi a dare la mano nel modo equilibrato, non assecondando i tentativi di dominarci[88], perché diversamente la consulenza comincerebbe davvero in salita.

(Continua)


[1] Così si definiscono anche i mediatori. La definizione tiene conto del fatto che si opera con tanti sistemi di composizione alternativa.

[2] Core mediation skills include communicating clearly, listening effectively, facilitating communication among all participants, promoting exploration of mutually acceptable settlement options, and conducting oneself in a neutral manner”. Advisory Committee Comment.

[3] Alla vigilia del Congresso di Bari il prof. Alpa ha indicato questa via nel suo contributo congressuale.

Per la verità nella legislatura appena conclusa era già stato presentato un disegno di legge in data 10 maggio 2011 sulla scorta della normativa francese. Ed in particolare dall’AIAF, dall’UNCC e dall’unione Triveneta dei Consigli dell’ordine degli avvocati. Cfr. http://www.ordineavvocatibelluno.com/pdf/Proposta.legge.pdf. Da ultimo anche un partito politico ha incluso la negoziazione partecipativa nel suo programma elettorale.

[4] Art. 4 c. 3 Loi n° 71-1130 du 31 décembre 1971 portant réforme de certaines professions judiciaires et juridiques

« Nul ne peut, s’il n’est avocat, assister une partie dans une procédure participative prévue par le code civil ».

[5] A cui accede peraltro il gratuito patrocinio. Cfr. art. 10 c. 2 Loi n° 91-647 du 10 juillet 1991 relative à l’aide juridique

<<Elle peut être accordée pour tout ou partie de l’instance ainsi qu’en vue de parvenir, avant l’introduction de l’instance, à une transaction ou à un accord conclu dans le cadre d’une procédure participative prévue par le code civil>>.

[6] Può riguardare anche la separazione ed il divorzio.

Article 2067

Une convention de procédure participative peut être conclue par des époux en vue de rechercher une solution consensuelle en matière de divorce ou de séparation de corps.

L’article 2066 n’est pas applicable en la matière. La demande en divorce ou en séparation de corps présentée à la suite d’une convention de procédure participative est formée et jugée suivant les règles prévues au titre VI du livre Ier relatif au divorce.

[7] Articoli 37 e 43 legge n. 2010-1609 del 22 dicembre 2010. LOI no 2010-1609 du 22 décembre 2010 relative à l’exécution des décisions de justice, aux conditions d’exercice de certaines professions réglementées et aux experts judiciaires.

[8] Article 2065 C.c.

« Tant qu’elle est en cours, la convention de procédure participative rend irrecevable tout recours au juge pour qu’il statue sur le litige. Toutefois, l’inexécution de la convention par l’une des parties autorise une autre partie à saisir le juge pour qu’il statue sur le litige.

En cas d’urgence, la convention ne fait pas obstacle à ce que des mesures provisoires ou conservatoires soient demandées par les parties. »

[9] Article 2066 C.c. «Lorsque, faute de parvenir à un accord au terme de la convention, les parties soumettent leur litige au juge, elles sont dispensées de la conciliation ou de la médiation préalable le cas échéant prévue.»

[10] In Francia dal 1991.

[11] Per approfondire i contenuti non giuridici della presente nota, si possono leggere, senza pretesa di completezza:  S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del gesto. emozioni e desideri nascosti nel silenzio del linguaggio non verbale, CISU, 2007; S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del segno, CISU, 2007; S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  Il potere del comportamento, CISU, 2007-2012; S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO,  La vendita analogica, CISU, 2007; W. F. CHAPLIN, J. B. PHILLIPS, J. BROWN, N.R. CLANTON & J.L. STEIN, Handshaking, gender, personality, and first impressions.  (2000) Journal of  Personality and Social Psychology, 79, 111-112; CID-CNV ISTITUTO DI PSICOLOGIA ANALOGICA E DI IPNOSI DINAMICA, La seduzione analogica, in http://www.istitutopsicologiaanalogica.it/public/La Seduzione_Analogica_CIDCNV.pdf; CID-CNV ISTITUTO DI PSICOLOGIA ANALOGICA E DI IPNOSI DINAMICA di Stefano Benemeglio, La comunicazione non verbale. atti analogici di rifiuto, in http://www.istitutopsicologiaanalogica.it/public/La_Comunicazione_Non_Verbale_CIDCNV.pdf; C. COCO, Lo sviluppo della personalità e i meccanismi di difesa, in ssis.unitn.it/didattica/sostegno/; G. CONCATO, Manuale di psicologia dinamica, Alefbet, 2006; L. COZOLINO, Il Cervello Sociale. Neuroscienze delle relazioni umane, Raffaello Cortina Edizioni, 200; E. DE BONO, Il pensiero positivo, Sperling & Kupfer, 1994; E. DE BONO, Sei cappelli per pensare. Il rivoluzionario metodo per ragionare con creatività ed efficacia, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2011; E. DE BONO, Il pensiero laterale, BUR, 1997-2010; E. DE BONO, Creatività e pensiero laterale, BUR, 1970-2010; J. M. DARLEY, Fondamenti di Psicologia, a cura di LUIGI ANOLLI,  Il Mulino, 1998; V. FANELLI, ENNEAGRAMMA, scopri te stesso e gli altri, Macro edizioni, 2008; G. FATELLI, Fondamenti della comunicazione, 3. L’etimologia, in http://www.comunicazione.uniroma1.it/materiali/11.43.47_Lezione%203.ppt; R. FISCHER- V. URY- B. PATTON, L’arte del negoziato, Corbaccio, Milano, 2005; S. FREUD, Introduzione alla psicanalisi, Boringhieri S.p.a., 1978; S. FREUD, Cinque conferenze sulla psicanalisi, Bollati Boringhieri, 1975; S. FREUD, L’Io e l’Es, Bollati Boringhieri, 2009; M. S. SCARAMUZZA, Elementi di analisi transazionale, in http://www.counselling-care.it/pdf/pdf_AT/AT13.pdf; F. GLASL, Confronting Conflict, A First-Aid Kit for Handling Conflict, Hawthorn Press, 1999; ANNA GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo. La comunicazione non verbale, Piemme, 2007; T. HORA, Tao, Zen, and Existential Psychotherapy, Psycologia, 1959; M. ROBINSON – G. WILSON, Is There a Problem with Porn?, 26 august 2007, in http://www.reuniting.info/taxonomy/term/173; G. MOCCIA – L. SOLANO, Psicoanalisi e neuroscienze. Risonanze interdisciplinari, Franco Angeli, 2009; M. PACORI, La stretta di mano: un saluto che parla per noi. In Salute &, agosto 2001, n. 8, anno 2, pag. 37-38; M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, Sperling & Kupfer Editori s.p.a., 2010; R. RUTELLI, Notizie (e esempi) sulla “pragmatica” della comunicazione umana”, in Semiotica (E)semplificata, Liguori Editore, 2005, Napoli, p. 87  e ss.; K. TOMM, Intendi porre domande lineari, circolari, strategiche o riflessive?, in Bollettino n. 24 del 1991 del centro Milanese di terapia della Famiglia, p. 1; J. WACHOB, 12 Things Celebs Can Teach You About Meditation, 21 ottobre 2010, The Huffington Post in http://www.huffingtonpost.com/jason-wachob/13-things-you-can-learn-a_b_685634.html; P. WATZLAWICK – J. HELMICH BEAVIN – D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1971.

[12] Ma le considerazioni che faremo, salvi gli obblighi di informativa di cui all’art. 4 c. 3 del decreto legislativo propri esclusivamente del legale, valgono per tutti i professionisti.

[13] Cfr. S. BENEMEGLIO – A. BENEMEGLIO, Il potere del segno, Cisu Editore, 2007, p. 26.

[14] Rule 2. 1 (Advisor) delle Model Rules of  Professional Conduct (il codice deontologico degli avvocati americani).

[15] Ognuno ha una propria visione del mondo. Non esiste un’unica realtà. Noi selezioniamo le informazioni in modo coerente con noi stessi. C’è chi sostiene che non esista una informazione che si possa considerare oggettiva (MATURANA).

Gli individui differiscono ancora tra di loro anche per i processi di ragionamento che hanno imparato ad usare: i ragionatori esperti si basano soprattutto sulle regole di inferenza.

Una regola di inferenza  stabilisce che una particolare proposizione deve essere vera, posto che siano vere certe altre proposizioni. Se ad esempio sono vere queste due affermazioni: 1) “il Milan o l’Inter hanno vinto lo scudetto del 2010” 2) Il Milan non ha vinto lo scudetto del 2010; ne seguirà in conclusione che l’Inter ha vinto lo scudetto del 2010.

Chi non ha studiato logica formale, tende a ricorrere a modelli mentali ossia ad utilizzare «una copia mentale» interna che possiede la stessa struttura di rapporti del fenomeno che rappresenta” .

[16] Gli uomini e le donne hanno modi fisiologicamente e psicologicamente diversi di percepire ed approcciare alla realtà.

[17] Le persone si possono dividere in tre categorie a seconda del canale con cui interagiscono con la realtà: visivi, auditivi e cenestesici.

[18] Pregiudizi e stereotipi.

[19] Si tratta di un acronimo inglese che sta per Visual Auditory kinesthetic

[20] Armonia, suonare, cantare, zitto, recitare, ascoltare ecc.

[21] Ad esempio: esprimiti meglio, fatti capire, chiamami, descrivi meglio, siamo in sintonia, sono tutt’orecchie, maniera di parlare, prestare attenzione, potere delle parole ecc.

[22] Ad esempio: vedere, colorato, visionare, ammirare, visualizzare, fissare ecc.

[23] Ad esempio: è chiaro come il sole, mi pare che, riempiti gli occhi, è chiaro che, la vediamo allo stesso modo, vedila cosi, ho avuto un flash, è sotto il tuo naso, è evidente che, questo è il quadro della situazione, a occhio nudo ecc.

[24] Percepire, pungente, urtare, solido, correre, toccare, sentire ecc.

[25] Ad esempio: mettere le carte in tavola, tenersi in contatto, momento di panico, togliersi un peso dalle spalle, essere spaventati, soppesare bene i fatti, me lo sento dentro, non siamo affini, l’ho passata liscia, toccare con mano.

[26]

Tipologia                      Vak  A  Vak  E      Mai

1. Perfezionista               V             A            K

2. Altruista                      K             V            A

3. Manager                      V             K            A

4. Romantico                   K             A            V

5. Eremita                        A            V            K

6. Scettico                         A            V            K

7. Artista                          V             K            A

8. Capo                              A             K            V

9. Diplomatico                K             A            V

[27] Orientativo, strategico, riflessivo, lineare, secondo la classificazione di Karl Tomm. Cfr. K. TOMM, Intendi porre domande lineari, circolari, strategiche o riflessive?, in Bollettino n. 24 del 1991 del centro Milanese di terapia della Famiglia, p. 1.

[28] Possiede un senso etico.

[29] Soffre di doverizzazioni.

[30] Si cala per natura nella dimensione empatica.

[31] Il manager non ha un senso etico individuale, ma quello sociale del momento; non si mette dunque nei panni degli altri se ciò “non va di moda”; dunque la domanda è inutile, se non dannosa.

[32] L’eremita non segue regole etiche se non sono logiche: dunque rivolgergli una domanda ipotetica è un grosso rischio.

[33] Il conflitto invischiato appartiene a persone che “ce l’hanno col mondo” e a cui non interessa risolvere il conflitto. Ciò perché un rapporto conflittuale è meglio che un’assenza di rapporto.

Alla base c’è la necessità di essere presi in considerazione. Dal momento che queste persone non vogliono risolvere il conflitto la conciliazione od altro mezzo di composizione non rientra nelle loro priorità.

[34] Senza contare che il tono di voce può alterare profondamente la finalità di una domanda e quindi la sua tipologia.

[35] Le aspettative mancate si verificano quando una persona si aspetta da un’altra un certo comportamento che non viene tenuto; il soggetto resta in attesa di più comportamenti senza dire nulla e ad un certo momento esplode il conflitto.

Questa aspettativa viene rappresentata dal soggetto come un dato oggettivo del conflitto; il professionista (e poi il mediatore) deve stare attento a non lavorare sul piano oggettivo, perché diversamente il conflitto non verrà risolto.

[36] Sono quelle domande a cui non si può rispondere semplicemente con un sì o con un no.

[37] Per “domande circolari” si intendono le domande che inducono l’interlocutore ad individuare possibili connessioni tra gli eventi che includono il problema. Esse si contrappongono alle domande “lineari” che invitano a spiegazioni deterministiche del problema presentato.

[38] In particolare Glasl (1997).

[39] Aiuta la sua concentrazione.

[40] La tipologia è creativa per definizione.

[41] Ma si tenga conto che è dispersivo: ciò anche se si utilizza il brainstorming.

[42] Tende a non esternare quel che sa.

[43] Ha paura che dall’elenco possa nascere una fregatura.

[44] Si tenga però conto che predilige le soluzioni a breve termine.

[45] Al contrario del manager predilige le soluzioni a lungo termine.

[46] Ha difficoltà di analisi.

[47] Vive in un mondo ideale.

[48] Non riesce a staccarsi dalle idee altrui.

[49] Accetta solo il risultato che si è costruito.

[50] Ciò lo aiuterà ad entrare maggiormente in empatia con il potenziale affidato, ossia a sentire ciò che il cliente sente e dunque a capire sino in fondo quali possono essere i suoi reali bisogni. Sono questi ultimi che dovranno trovare coronamento in mediazione od in negoziazione.

Dall’attenzione al linguaggio del corpo del cliente il legale potrà percepire lo stato emozionale: se lo stesso si trovi in tensione o se provi sensazioni di gradimento o rifiuto; anche ciò aiuterà il legale ad entrare in empatia.

[51] Se rivolgo una domanda ad un soggetto e questi per rispondermi guarda alla mia destra starà ricordando un fatto, se guarderà alla mia sinistra è possibile che stia inventando o che stia mentendo.

[52] Ci sono degli stadi del conflitto che il legale deve essere in grado di individuare per suggerire al cliente che il conflitto ha una determinata e in qualche modo prevedibile escalation. Il conflitto si autoalimenta, comporta una catena di reazioni che portano appunto alla escalation (entropia).

[53] Le tappe del conflitto che descriveremo sono tratte liberamente dal diagramma di Glasl e corrispondono pienamente a ciò che si verifica nella pratica professionale. Cfr. F. GLASL, Confronting Conflict, A First-Aid Kit for Handling Conflict, Hawthorn Press, 1999.

[54] Si verifica quando gli elementi manifesti, se ce ne sono, coprono il conflitto reale (ad es. interruzione della relazione).

[55] Disaccordo = tensione.

[56] Sussiste un contrasto quando c’è: a) differenza di vedute od opinioni; b) rispetto dell’altro e dei suoi bisogni; c) mancanza di disagio emotivo; d) uno scopo comune.

[57] Sussiste un conflitto quando c’è: a) differenza di vedute ed opinioni; b) un attacco dell’altro, dei suoi bisogni e valori; c) rabbia ed ostilità; d) sospetto di inautenticità sugli obiettivi dichiarati.

[58] Bisogna vedere se sono veri e propri valori ed allora non sono negoziabili. Spesso sono solo atteggiamenti che si cerca di giustificare con un principio: in tali casi si può lavorare sul conflitto.

[59] Lo stesso legale potrà vedere il collega che difende la controparte come un nemico da abbattere processualmente e sentirsi emotivamente e direttamente coinvolto.

[60] Lo troviamo spesso anche nella corrispondenza dei legali.

[61] Situazione questa tipica delle liti familiari.

[62]Mediators need to create a common understanding with the conflict parties on the mediator’s role and the ground rules of the mediation”. United Nations, Guidance for Effective Mediation, 2012, p. 9.

[63] Come statuisce il Consiglio d’Europa (Raccomandazione n. R (81) 7) non vi può essere assistenza obbligatoria dell’avvocato, ma l’assistenza è comunque un diritto del cliente. La stessa Raccomandazione della Commissione Europea del 30 marzo 1998 98/257/CE individua una in una procedura efficace quella che comporta la possibilità di accesso alla procedura senza rappresentante legale, a costi gratuiti o moderati.

[64] “Tante carte e documenti accatastati alla rinfusa, tanto da occupare quasi tutto lo spazio del piano di lavoro, non rivelano un individuo super indaffarato, ma al contrario: chi siede a quella scrivania non riesce ad avere la giusta efficienza e metodo di lavoro”. Anna Guglielmi, Il linguaggio segreto del corpo. La comunicazione non verbale, Piemme, 2007, p. 37.

[65] Cfr. ANNA GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 43.

[66] Anche perché in media un uomo parla 10-12 minuti al giorno ed una frase media dura non oltre 10 secondi e mezzo. Il 65% delle interazioni prende la via del corpo (RAY LOUIS BIRDWHISTELL). Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 5.

[67] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 107. Ciò comporta che non ascoltiamo davvero quello che ci viene riferito, ma pensiamo solo a quello che vogliamo dire noi, rendendo difficile la comunicazione.

[68] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 107.

[69] L’aspetto paraverbale riguarda le qualità della voce, il modo in cui articoliamo le parole e dunque il registro, il volume, il tono, il timbro, la nasalizzazione, la dizione, la  cadenza, l’affettazione della nostra espressione vocale.

[70] Se mi lavassi i denti ad un funerale il messaggio  sarebbe differente da quello che lancerei se mi lavassi i denti nel bagno di casa.

Il contesto può essere fisico e psicologico.

Un fenomeno può restare inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica.

[71] Che secondo alcuno sarebbe da parificarsi al linguaggio verbale in quanto a percentuale.

[72] Il bambino che ha fatto una marachella spesso nasconde le mani dietro alla schiena; quando diventa adulto questo gesto viene sostituito da un toccamento del naso o del volto, spesso difficile da percepire per un occhio che non sia allenato a farlo. La persona adulta tende invecchiando a ridurre la propria gestualità e la propria mimica facciale. ANNA GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 124.

[73] M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 15.

[74] Se il cliente dovesse portarne alla bocca qualcuno, si osservi se lo mangia in fretta. Se così fosse è probabile che lo faccia anche con le cose che ascolterà e che dunque non elaborerà con la sua testa Se invece dovesse scartare l’involucro con pignoleria probabilmente è  persona critica e selettiva. Cfr. A. GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 200-201.

Anche la seduta del potenziale cliente può fornire utili indicazioni: se si siede sul bordo dimostra fretta, impazienza o il desiderio di andarsene, così se si siede sulla metà orientando le gambe altrove; se afferra i braccioli e sposta la sedia indietro vuole mantenere le distanze (M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 102); se mette la caviglia sopra il ginocchio è ostile e rigido sulle sue posizioni,  se tiene le mani ed incrocia le caviglie probabilmente non vuole rivelare una informazione, se si siede a gambe larghissime (uomo) vuole dominare, se si dondola è come dicesse: “io ho già trovato la soluzione, sbrigati a parlare che te la dico” ecc. (Cfr. A. GUGLIELMI, Il linguaggio segreto del corpo, op. cit., p. 103 e ss.).

[75] Ciò favorisce il rapporto di collaborazione.

[76] Lo sguardo foveale andrà dagli occhi alla fronte del cliente, quello periferico su tutta la sagoma.

[77] L’antropologo EDWARD HALL che ha scoperto il concetto di spazio prossemico ci spiega che la prossemica è “lo studio di come l’uomo struttura inconsciamente i microspazi – la distanza tra gli uomini mentre conducono le transazioni quotidiane -, l’organizzazione  dello spazio nella propria casa e negli altri edifici ed infine la struttura della sua città”. La territorialità è un meccanismo inconscio degli animali che consente la regolazione della diffusione della popolazione e della densità di insediamento. Ogni violazione del nostro spazio vitale o prossemico da parte di uno sconosciuto ci provoca uno stato d’ansia. È stato dimostrato che (ROBSON; KIMES) che un locale in cui i tavoli fossero ad una distanza inferiore al metro avrebbe uno scarso successo commerciale presso gli avventori che non ci trascorrerebbero molo tempo e dunque non spenderebbero più soldi. Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, Sperling & Kupfer Editori s.p.a., 2010, p. 6 e ss.

[78] Da 1 metro e  20 centimetri a due metri.

[79] Cfr. M. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 77.

[80] Si tratta di Naliny Ambady docente di psicologia alla Tufts University di Medford, Massachusetts. Cfr. PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 2.

[81] È oggi superata l’opinione di VANDERBILT (1957) per cui la stretta di mano è come il modo di camminare di una persona. Secondo alcuno (PACORI, I segreti del linguaggio del corpo, op. cit., p. 90) l’usanza di stringere la mano risalirebbe al Medioevo e in quei tempi stava a significare che coloro che la scambiavano erano disarmati. In tempi decisamente più remoti aveva tutt’altro significato: presso i Greci indicava che il fideiussore di un debito era tenuto a garantirne il pagamento con la propria persona. In ogni caso nella storia ha sempre avuto un importante significato.

[82] Cfr. W. F. CHAPLIN, J. B. PHILLIPS, J. BROWN, N.R. CLANTON & J.L. STEIN, Handshaking, gender, personality, and first impressions.  (2000) Journal of  Personality and Social Psychology, 79, 111-112.

Sino al 2000 non era scientificamente dimostrato, ma era solo un dato di esperienza, che la stretta di mano influisse sulla prima impressione tra due estranei che si incontrano (e quindi nel nostro caso tra un avvocato ed il suo cliente), ma gli studiosi citati hanno dimostrato che se le mani sono calde e asciutte, le strette sono forti, durature, vigorose e complete (stretta di mano detta ferma) e vi è un  contatto con gli occhi , tutto ciò si tradurrà in una impressione più favorevole. La buona impressione che si ricava da una stretta di mano fa sì che le persone, a prescindere dal loro sesso, si comportino in modo estroverso, coscienzioso, piacevole, emotivamente stabile ed aperto. Cfr. W. F. CHAPLIN, Handshaking, gender, personality, and first impressions, op. cit., p. 115.

[83] Una mano asciutta negli uomini  indica socievolezza; una mano bagnata indica sempre una situazione di stress  perché la mano non suda per un aumento della temperatura.

[84] Il tipo di stretta di mano può indicare dominanza nei seguenti esempi: porre una mano sulla spalla dell’interlocutore mentre con l’altra si stringe la sua mano; stringere la mano con il polso rivolto verso il basso o torcendo il polso dell’altro in modo da fargli esporre il palmo; dare la mano tenendo il braccio rigido; tirare la mano dell’altro verso il basso; piegare il gomito e tirarlo all’indietro nel dare la mano, stringere molto una mano .

Così come può palesare sottomissione piegare la schiena nel dare la mano o ancora può significare rifiuto del contatto  stringere la mano dando solo la punta.

[85] L’intensità della forza imposta alla stretta può fornire utili elementi, perché si ritiene legata alla personalità: una stretta salda e decisa è tipica di una personalità dominante, sicura di sé e razionale; se la pressione è sovrabbondante potrebbe però essere indice di un carattere aggressivo ed esibizionista.

Le persone che invece porgono la mano in modo molle e snervato sono di solito riservate, introverse e diffidenti.

Anche l’individuo in depressione ha la tendenza a stringere debolmente. M. PACORI, La stretta di mano: un saluto che parla per noi. In Salute &, agosto 2001, n. 8, anno 2, pag. 37-38.

[86] Se la stretta è avvolgente siamo in presenza di quello che la psicologia analogica chiama “cerchio”, se è a  tenaglia di un triangolo. Le personalità cerchio e triangolo sono collaborative.

[87] Se la stretta è penetrativa siamo in presenza di una personalità asta che non è collaborativa. Ha il significato di una sfida.

[88] La qualcosa è complicata, ma non è del tutto impossibile dato che lo studio già citato ed effettuato su 112 individui ha dimostrato che le mani delle persone mantengono invariate nel tempo solo la temperatura (caldo e freddo), la secchezza od umidità e la struttura (rigidità ed elasticità).

Cambiano insieme invece nel tempo cinque variabili: vigore, resistenza, durata, contatto degli occhi e completezza della stretta.

I sistemi di ordine negoziato in Oriente e nell’Occidente europeo (Parte terza)

Sin dai tempi antichi anche in Occidente la conciliazione,  la mediazione e l’arbitrato sono stati “preferiti” al processo e quindi sono stati considerati, talvolta in modo atecnico, “condizioni di procedibilità”.

In alcuni contesti sociali ed economici quelli che noi definiamo strumenti alternativi non furono addirittura percepiti come tali, ma vennero considerati come mezzi di risoluzione esclusiva di diritto o di fatto, dei rapporti familiari, delle vicende societarie, di quelle lavoristiche e delle controversie agrarie.

Quindi siamo originariamente in sintonia con il sentire orientale.

Ciò è accaduto da quando si può parlare di Storia anche nel campo delle relazioni internazionali, specie con riguardo alla prevenzione dei conflitti armati: pensiamo all’opera degli Araldi in Grecia, dei Feciali a Roma, degli Irenofilaci in Magna Grecia, figure sacre queste che dovevano tentare la conciliazione a nome del loro popolo prima che venisse dichiarata la guerra.

Nella mediazione internazionale dell’Ottocento il ruolo del mediatore fu semplicemente affidato ai sovrani; all’epoca peraltro erano ben vivi tutti i principi che ispirano oggi la mediazione civile e commerciale.

Nel processo ateniese classico con riferimento a diversi reati – tra cui quello di furto – era già previsto un tentativo di conciliazione obbligatorio.

L’ordinamento processuale della polis greca era uno dei tanti ordinamenti presenti sul territorio. E gli altri ordinamenti, quelli della fratria e della famiglia la facevano da padrone ed avevano proprie regole di componimento: lo stesso Platone ne “Le Leggi”  ci indica queste regole nella conciliazione e nell’arbitrato.

Nessuno meglio degli amici e dei parenti poteva regolare le controversie. E ciò anche perché nell’Atene classica nemmeno il processo per questioni minori era attivabile da tutti.

Il solo cittadino poteva promuovere azione presso i Quaranta[1], il meteco (lo straniero che non poteva possedere beni immobili) poteva rivolgersi solo all’Arconte Polemarco, i commercianti potevano investire delle loro questioni solo i Tesmoteti; ciò determinava una forte limitazione della capacità processuale.

I metodi alternativi erano invece a disposizione di tutti e non vedevano limitazione di sorta. Si tenga conto inoltre del fatto che la sentenza del tribunale ordinario, ossia quello eliastico, era definitiva: e quindi chi vi ricorreva doveva aver imboccato prima altre strade che si erano rivelate insoddisfacenti.

Le occasioni di litigio e dunque di componimento erano molto frequenti in Grecia: non esisteva, infatti, un diritto di proprietà che un soggetto potesse vantare erga omnes; le stesse servitù in realtà erano solo regolamenti convenzionali di una limitazione legale del fondo; se ancora un soggetto dava a pegno un bene e non lo riscattava, almeno nei primordi, non poteva recuperare la differenza tra quello che avrebbe dovuto pagare ed il valore di mercato della cosa pignorata (ciò perché il creditore non poteva vendere il bene e soddisfarsi); almeno nei tempi più risalenti poi non si poteva nemmeno assegnare ad un bene mobile, benché capiente per valore, il soddisfacimento di più crediti.

Possiamo aggiungere che lo stesso meccanismo processuale sorge in origine in quanto “tollerato” dai sistemi di composizione familiari o della fratria.

Ed era peraltro un meccanismo processuale assai differente da quello che conosciamo noi a partire dalle codificazioni del XIX secolo.

Se affrontiamo la questione sul piano storico possiamo affermare senza tema di smentita che nella Grecia antica i giuristi non esistevano, così come non esisteva la giurisprudenza; le contese venivano composte con l’utilizzo da parte dei contendenti che se lo potevano permettere di logografi giudiziari che erano retori e dovevano essenzialmente conquistare la fiducia e la simpatia dei giudici[2]; il magistrato che istruiva il processo non era un giurista, ed infine la stessa giuria che emetteva il verdetto era formata da semplici cittadini[3].

Ai magistrati ateniesi si richiedevano[4], in definitiva, il superamento dei trenta anni e la probità della famiglia, della vita e dei costumi: il senato verificava che venerassero i patri numi[5], fossero pietosi verso i genitori, avessero fatto il servizio militare, non avessero debiti con l’erario, avessero reso il conto di un’altra eventuale magistratura, non fossero falliti, non avessero patito sodomia e non avessero gettato via lo scudo in battaglia[6].

Non stupisce dunque che un frammento delle Tavole di Zaleuco[7] (VII sec. a. C.) in Magna Grecia avesse il seguente tenore: “Vietarsi di intraprendere un giudizio fra due se prima non siasi tentata la riconciliazione[8].

Nel mondo romano grande rilievo hanno senza dubbio i giureconsulti e la giurisprudenza[9] e la preparazione giuridica per un soggetto che assiste le parti è stata da un certo punto in poi essenziale[10], ma i giudici non erano necessariamente giureconsulti. Non lo erano i Pretori dell’età repubblicana, anche se si servivano di assessori legali; non lo erano gli Imperatori che pur avevano un consistorium auditorium, né i Presidi o i Prefetti del pretorio che a loro volta erano coadiuvati dagli Assessori e così pure i Difensori di città[11] dell’epoca imperiale, e per venire a tempi successivi non lo erano gli Sculdasci dei Longobardi, il Baiulo degli Svevi o i Consoli di giustizia dell’età delle repubbliche[12], il giudice di pace inglese[13], il giudice di pace francese del 1790[14], il conciliatore della Repubblica Ligure del 1798, il conciliatore italiano del 1865, i conciliatori francesi introdotti nel 1978.

Sino all’Età dei lumi possiamo dire che la giustizia non era dunque amministrata da giuristi professionali e gli stessi giuristi per il Giudice erano di consultazione facoltativa.

Napoleone ai primi dell’Ottocento fu tra i primi ad obbligare i giuristi a frequentare le scuole di legge.

Di contro già nella Roma repubblicana quelli che Cicerone chiamava disceptatores domestici conciliavano dalle sei del mattino alle sei di sera e la conciliazione era così  diffusa che addirittura venne vietata da Caligola che temeva venissero messe a repentaglio le entrate imperiali: aveva infatti messo una imposta del 40% sulle entrate giudiziarie.

L’uso della conciliazione a Roma ci è attestato anche dall’Evangelista Luca (12, 58-59): “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice  ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico non uscirai di là finché non avrai pagato l’ultimo spicciolo.”

Un tentativo obbligatorio duplice, preventivo e diremmo noi, processuale, era previsto poi proprio su ispirazione del principio evangelico testé citato, davanti al tribunale del vescovo (udienza episcopale); il tentativo preventivo di conciliazione si teneva il lunedì per dar modo al vescovo di condurre, se fosse fallito, un altro tentativo di conciliazione da solennizzare nel corso della liturgia domenicale[15].

Le Arti manufatturiere in Veneto nel XIV secolo regolavano tutte le controversie tra gli iscritti tramite una magistratura di conciliazione che aveva anche il compito di apprestare mutui soccorsi e di costruire chiese[16].

Tale sistema di composizione diventa centrale anche in Francia nel XVI secolo tanto che viene regolato dalla legge: a quel tempo i commercianti incontravano dei problemi nell’adire i Tribunali di commercio perché i giudici non avevano le necessarie competenze tecniche per  gestire le loro controversie e non era ammessa la testimonianza orale;  quindi i mercanti non potevano chiamare a testimoniare gli esperti di una data materia.

Con una legge del 1563 dunque si consentì ai Tribunali di commercio francese di nominare un esperto (arbitro–relatore)[17] che sentiva le parti, provava a conciliarle e se non ci riusciva ne riferiva al Tribunale.

L’arbitro-relatore diverrà poi nel Code commerciale del 1806 l’arbitro-conciliatore e di legislazione in legislazione facilmente arriverà alla nostra del ’42 con l’esame contabile (art. 198-200 C.p.c.), per approdare poi tra i sistemi ADR americani con il nome di neutral early evaluator, ruolo da ultimo legittimato dall‘Administrative Dispute Resolution Act nel 1998.

Nello Stato sabaudo settecentesco ritroviamo una norma risalente a Federico II di Svevia[18],  per cui si affidava la risoluzione delle controversie tra le genti rustiche a mezzi alternativi obbligatori e non è certo un caso isolato.

Così si esprimono gli Statuti di Sua Maestà (1729-1770): “Decideranno parimenti le querele che insorgessero tra la gente rustica sopra la variazione de’ confini, o altro incommodo che si pretendesse ne’ beni, e percezione dei loro frutti, chiamando ed interponendo la mediazione dei più pratici di detti confini e terre, che sieno uomini dabbene, e non sospetti; ed avuto il loro sentimento, renderanno a ciascuno il loro diritto”.

Sempre nel XVIII secolo, il tentativo preventivo di conciliazione è stato sicuramente obbligatorio nei Paesi Bassi, nel Cantone di Ginevra (1713-1816), ed in Prussia (1745).

E questo stato di cose si è protratto anche successivamente alla Rivoluzione francese quando la tendenza, di costume o di necessità, a praticare uno strumento extraprocessuale divenne un testo giuridico che si affermò tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento in tutta Europa.

Rammento appunto il caso della Francia (1790), della Danimarca (1795), della Repubblica Cisalpina (1797), della Repubblica Ligure (1798-1805), della Repubblica Romana (1798-99) della Liguria annessa alla Francia (1805-1814), della Norvegia (1800), della Spagna (1812, 1821 e 1856), dell’Austria e domini (Lombardia e Venezia) 1815, dell’Impero ottomano (con riferimento alle relazioni consolari dei sudditi austriaci) (1855), dei Codici di commercio Ungherese e Portoghese (1800-1850), del Codice di procedura civile estense del 1852.

Il tentativo di conciliazione preventivo[19] diventa facoltativo per le parti (ma non per il giudice) in reazione a Napoleone solo nel Regno delle Due Sicilie a partire dal 1819, ma si deve tener conto che comunque all’epoca in diverse materie vi era l’arbitrato obbligatorio che terrà in Italia sino al 1982 quando si sostituirà con il tentativo obbligatorio di conciliazione agraria.

In ogni caso anche nel Sud qualora a litigare fossero delle Pubbliche Amministrazioni il tentativo di conciliazione  restava obbligatorio.

Costante dunque nei secoli è la fuga dal formalismo processuale ed il rispetto del controllo privato delle forme della contesa. In Lombardia sino alla Rivoluzione del ’48 erano le parti a scegliere il rito più appropriato (tra quello verbale e quello scritto) e non il giudice.

Dopo il 1860 in Italia la conciliazione come condizione di procedibilità la ritroviamo nel Codice della Marina Mercantile del 1865, nella legge istitutiva dei probiviri (1895), nella legge del 1926 istituente l’ordinamento corporativo, nel codice di rito del ‘42 dove era addirittura condizione di proponibilità della domanda in ordine alle controversie collettive.

Venuto meno l’ordinamento corporativo il tentativo di conciliazione obbligatorio preventivo davanti alle associazioni sindacali “sostituisce” come condizione di procedibilità del successivo giudizio, l’obbligo di denuncia all’associazione sindacale previsto nel periodo fascista per il tentativo individuale.

A seguito degli strali della Corte costituzionale nei confronti dei contratti collettivi di lavoro erga omnes, che contenevano anche clausole di conciliazione obbligatoria, rimane in piedi il regime della facoltatività.

Ma già nel 1973 e poi nel 1990 riprende il viatico del tentativo obbligatorio in relazione all’impugnazione del licenziamento.

Dal 1998 abbiamo ancora per tutta la materia del lavoro un doppio tentativo obbligatorio, giudiziale e stragiudiziale a cui si aggiunge del 2004 l’obbligatorietà del tentativo davanti alle Commissioni di certificazione nel caso in cui si voglia impugnare un contratto certificato.

Solo a partire dal 5 novembre 2010 si è tornati ad un tentativo extragiudiziale di conciliazione facoltativa nella materia del lavoro, ferma sempre l’obbligatorietà del predetto tentativo davanti alla Commissioni di certificazione.

Si annota però qui che la recente riforma del mercato del lavoro approdata in gazzetta ufficiale ci fa tornare dal 18 luglio 2012 alla obbligatorietà del tentativo di conciliazione: si prevede, infatti, una particolare procedura nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo[20].

Da 1995 al 2006 poi il tentativo di conciliazione giudiziale si è mantenuto obbligatorio anche per il processo civile ordinario.

Troviamo ancora il tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità in materia di pubblici servizi, di telecomunicazioni, di sub-fornitura, di pubblico impiego[21] e di diritto di autore.

Emerge alla luce degli esempi tratteggiati che in passato le controversie si risolvevano o con una conciliazione perlomeno “sentita” come obbligatoria, quando non disposta dalla legge, come condizione di procedibilità.

Quanto alle caratteristiche della conciliazione si può dire che in Italia ed in Europa è prevalso il modello valutativo del conciliatore consigliere delle parti.

(Continua)


[1]             La magistratura minore che giudicava sino a dieci dracme.

[2]             La base giuridica della disputa passa in secondo piano non essendoci meccanismi atti a valutarla. V. C. BEARZOT, Diritto e retorica nella polis democratica ateniese, in Dike Rivista storica del diritto greco ellenistico, 9, 2006, p. 132. Solo eccezionalmente poteva esserci una seconda arringa tenuta da una sorta di avvocato detto sinègore, che di solito era un politico in vista di Atene; questi non era cioè un avvocato di mestiere e non veniva retribuito. V. R. FLACELIERE, La Grecia al tempo di Pericle, Rizzoli, 1983, p. 278 e 288.

[3]             V. amplius E. CANTARELLA, Diritto greco, cit. pp. 14-16.

[4]             E subivano su questo un rigido esame denominato docimasia da parte del Bulé o Consiglio dei Cinquecento. Col che vogliamo sottointendere che anche chi vuole esercitare come terzo la nobile arte della negoziazione deve essere sottoposto ad un esame assai rigoroso, non però principalmente od addirittura esclusivamente incentrato sulle conoscenze giuridiche.

[5] Questo peraltro è un requisito che si resisterà per l’accesso alle professioni liberali sino all’ultima guerra.

[6]             C. CANTÙ, Appendice alla Storia Universale, vol. Unico Delle Legislazioni, Pomba & C., Torino, 1839, p. 94 e 95. La base della formazione oplitica comportava che se si abbandonava lo scudo si lasciava senza difesa anche “il vicino di sinistra”; il dovere e l’onore del cittadino-combattente era dunque quello di mantenere il proprio posto nella schiera assicurandone la integrità e la resistenza contro l’impeto nemico. V. F. CANTARELLA op. cit., p. 364-365.

[7]             Primo legislatore dell’Occidente.

[8]             M. DE LUCA PICIONE, Cenni storici sulle ADR, in Temi Romana, Speciale media conciliazione, gennaio-dicembre 2010.

[9]             Perlomeno dal sorgere della letteratura giuridica ovvero nel periodo che va dalla tarda repubblica di Publio Muzio Scevola ad Ulpiano con cui il giureconsulto è ormai un pubblico funzionario e la giurisprudenza è ormai cristallizzata nella constitutiones imperiali. Si noti però che il ceto professionale dei giuristi nasce dalla sovversione della tradizione. Cicerone (Delle leggi, 2, 29,47) ci racconta che Quinto Mucio, figlio di Publio, afferma di aver udito il padre che non può essere buon pontefice colui che non abbia conoscenza dello ius civile (ossia delle giurisprudenza e della prassi giudiziaria). Sino ad allora era la pratica pontificale che fondava lo ius civile e non viceversa (v. amplius A. SCHIAVONE, Il giurista, in L’uomo romano a cura di Andrea Giardina, Laterza, 2001, p. 92 e ss.).

[10]            V. amplius U.E. PAOLI, Vita romana, Le Monnier, Firenze, 1962, p. 168 e ss.

[11]            L. SCAMUZZI, voce Conciliatore e conciliazione giudiziaria, in Digesto Italiano, vol VIII p. I, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1896, p. 44.

[12]            Eccezione al principio sono forse lo Scabino di età franca che potremmo definire erede del giureconsulto romano ed il Bailo, giudice e conciliatore nelle terre non feudali che doveva essere notaio. Solo nel 1770 in Piemonte si iniziò a richiedere la laurea per i giudici di nomina regia. (Cfr. Atti parlamentari subalpini, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1869, p. 360) anche se, per la verità già una norma savoiarda del 1430 (Statuta Sabaudiae; v. in seguito Leggi e Costituzioni di Sua Maestà del 1729 art. 2 lib. II Tit. V) richiedeva ai giudici di città e delle terre non feudali di essere dottori.

[13]            Per questa carica i professionisti del foro venivano deliberatamente esclusi. Ma con una legge del 25 maggio 1871 si limitò l’incompatibilità all’attorney o solicitor (procuratore e avvocato) che eserciti la professione nella stessa contea. L. SCAMUZZI, voce Conciliatore e conciliazione giudiziaria, p. 48. Il giudice di pace in un primo tempo era comunque assistito da due giuristi chiamati Quorum.

[14]            Che era parimenti affiancato da due assessori.

[15]            V. amplius T. INDELLI,  La episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Valentiniano III (sec. IV-V d. C.), in http://www.sintesionline.info/index.php?com=news&option=leggi_articolo&cID=85

[16]            C. CANTÙ, Storia degli Italiani, tomo IV, Cugini Pomba e Comp. Editori, 1853, p. 632.

[17]            Cfr. il sito degli attuali eredi in Francia di quegli antichi mediatori valutativi in  http://www.mediation-ieam.com/Historique.asp

[18]            Che a sua volta si era rifatto alle XII Tavole della Roma arcaica.

[19]            Salvo il caso degli Stati Sardi che hanno sempre rifiutato l’obbligatorietà di un tentativo preventivo, ma avevano comunque un tentativo giudiziale obbligatorio per il giudice,

[20]            Art. 1 c. 40 L. 28 giugno 2012,  n. 92 in Gazzetta Ufficiale Supplemento Ordinario n. 136 alla  Gazzetta Ufficiale n. 153 del 3 luglio 2012. In vigore dal 18 luglio 2012.

[21]            Sino al 5 novembre 2010.

Breve nota sul rapporto tra mediazione civile e commerciale e psicoanalisi

L’istituto della mediazione civile e commerciale di recente normato in Italia dal decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 possiede diversi elementi in comune con la psicoanalisi o psicologia dinamica.

I cenni che seguiranno in merito si rivolgono ovviamente a coloro che non sono avvezzi allo studio ed all’utilizzo delle discipline psicologiche e dunque la trattazione non ha alcuna pretesa di completezza, né tanto meno di informazione scientifica.

Un’attenta analisi delle discipline potrebbe portare tuttavia un semplice giurista quale io sono a ritenere che i sistemi di ordine negoziato e la psicoanalisi abbiano antenati comuni.

È un fatto comunque che la conciliazione fosse praticata già da alcuni millenni in quei luoghi da cui Freud trasse i preziosi reperti archeologici  che stanno alla base della sua ricerca sulla psiche.

Anche l’oggetto della psicologia dinamica può dare conforto alla impostazione indicata dal momento che la disciplina investe la soggettività, il mondo emozionale, i legami affettivi, le modalità dei rapporti interpersonali, dei conflitti e delle reazioni difensive.

Al mediatore si chiede di approfondire proprio questi ultimi universi ed è un peccato che nel nostro paese la discussione abbia preso subito e quasi in esclusiva, una piega giuridica; anche se ciò è comprensibile proprio alla luce della concezione freudiana che vede SUPER IO come depositario delle norme e del costume, come difensore di un IO che dopo essersi ritagliato in ES un piccolo spazio, un disco germinale su un tuorlo d’uovo, ha bisogno di un qualche comando che permetta alla sua coscienza di sublimare tendenze vitali, ma decisamente irrazionali.

E poi si sa, ES è atemporale e dunque l’Io ha bisogno di sapere che una certa situazione è regolata, che c’è una norma vigente e dunque un periodo di tempo determinato in cui vivere ed in cui rinvenire un baluardo anche nei confronti del principio di realtà.

Secondo Freud la maggior parte della vita psichica è inconscia: nei corsi da mediatore si impara appunto e addirittura che l’inconscio copre il 93% e che esso è di primario interesse per il facilitatore.

Sia in psicoanalisi, sia in mediazione si ritrovano la plasticità e la flessibilità e dunque l’assenza di protocolli standardizzati, l’evitamento delle forzature, la neutralità dell’operatore, l’aiuto altrui,  lo studio della mimica, del comportamento e del modo di parlare, lo scambio delle parole, la segretezza e confidenzialità, un particolare legame emotivo tra operatore e soggetto, il poter  comunicare quello che viene in mente senza la paura di ricevere una critica, una mente libera da preventive consapevolezze, lo studio della propria personalità, la consapevolezza della mancanza di identità tra conscio e psichico, lo studio di elementi apparentemente insignificanti e mancanti, il fatto che siano i portatori del conflitto a porgere la soluzione, il fatto che si consideri sempre incerto l’esito della cura/procedura, effetti dipendenti dall’umanità dell’operatore (capacità relazionale, sensibilità, intuizione, empatia, esperienza), l’indeterminatezza del fattore tempo, la calibratura delle distanze, il “cambio” dei ricordi.

Ci sono ovviamente anche alcune differenze: i soggetti coinvolti in una mediazione sono almeno tre; in psicoanalisi sono invece due. Il setting si presenta poi diverso: in psicoanalisi si pratica la registrazione delle sedute che in mediazione civile e commerciale non è consentita; si utilizza inoltre lo specchio bidirezionale (che ritroviamo anche nella mediazione familiare); l’analista inoltre siede alle spalle del paziente che è disteso su un lettino, il mediatore civile e commerciale e coloro che mediano sono al contrario in posizione quasi frontale ed ai vertici del triangolo equilatero iscritto all’interno di un tavolo rotondo.

L’obiettivo della psicoanalisi è poi la cura dell’IO, quello della mediazione è la cura del rapporto in contestazione, cura però che passa attraverso il raggiungimento della consapevolezza in capo al mediante di quelle che sono le sue esigenze.

Detto ciò in generale possiamo rinvenire le rappresentazioni freudiane, la “gestione delle topiche”, in vari momenti della procedura di mediazione.

Il cammino personale che Sigmund Freud ci descrive ne L’Introduzione alla psicoanalisi parte dall’analisi degli atti mancati (lapsus, dimenticanze ecc.) per arrivare allo studio del sogno che avrebbe con gli atti mancati diverse analogie, il quale sogno è collegato ad un desiderio espresso nei giorni precedenti oppure è dettato da bisogni primari (fame, sete): non è un caso, in altre parole, se un condannato a morire di fame sogni un banchetto succulento. Alla luce di questa considerazione sembrano peraltro quasi scontate le conclusioni di Maslow: chi ha fame non pensa ai suoi bisogni di appartenenza, ma al soddisfacimento del ventre e solo successivamente rivaluta la sua situazione; il mediatore quando media è ben conscio di questo stato di cose, anche se ignora per lo più che ciò è stato posto da secoli all’attenzione degli studiosi e non è dunque un portato degli anni ‘50.

Anche il cammino del mediatore inizia poi con lo studio di atti che possono apparire insignificanti (stretta di mano, sguardo e linguaggio analogico) e che sono invece strettamente connesse con le emozioni e le percezioni del mediante e giunge più avanti alle esigenze che sono state già evidenziate dal linguaggio del corpo e dal paraverbale.

Così come nella seduta psicanalitica l’operatore cerca di pervenire dal contenuto manifesto del sogno a quello latente (ossia ciò che dell’inconscio può arrivare alla coscienza) che è il reale significato onirico, allo stesso modo il mediatore cerca di far in modo che colui che media sostituisca/arricchisca la percezione della realtà che appare manifesta nel verbale, nel paraverbale e nel linguaggio del corpo della congiunta, con le esigenze, il valori e le credenze che sono latenti e che sono i veri oggetti con cui i mediante vuole soddisfarsi.

Normalmente, infatti,  il mediante non manifesta le sue esigenze in congiunta,  ma esterna un contenuto deformato costituito dai punti di vista giuridici.

Gli elementi manifesti del sogno sono spesso camuffamenti di elementi latenti che non riescono a superare la censura onirica.

Gli aspetti giuridici sono spesso deformazioni delle esigenze del mediante che riescono a superare la censura di SUPER IO, che sono cioè accettabili in quanto consoni ad una determinata norma od usanza sociale.

L’impostazione dell’avvocato che viene ripetuta dal cliente è in particolare un prolungamento di SUPER IO, un suo ausilio, nel momento in cui egli ricorda all’ES del suo assistito e a quello dell’avversario che bisogna essere in un certo modo e che non è possibile essere in un altro.

Per l’ES del cliente la deformazione e dunque la norma assume una funzione narcisistica in quanto è come se dicesse: “Ama me, se vuoi davvero amare ”, “Ama la norma di cui io sono custode, perché solo questo ti è concesso”.

E dunque il mediante, come se fosse ipnotizzato, ripete e mantiene fermo il concetto: “Io ho ragione, io sono creditore, io vinco la causa…

Ma la deformazione è sempre una deformazione su cui incidono peraltro anche altri elementi di disturbo che andranno svelati in sessione privata, perché l’IO combatte con SUPER IO, ma anche con una realtà che considera immutabile e tutto ciò gli crea angoscia.

Il mediatore non ha ovviamente in congiunta a disposizione un sogno da interpretare, ma solo un linguaggio verbale di due persone che è opposto ed escludente e poi la motilità di ognuno che viene posta in essere su richiesta dell’ES di ciascuno.

E come si comporta?

Lascia appunto sfogare all’IO l’aggressività che proviene da ES sia tramite la motilità, sia tramite il verbale. Anche il terapeuta incentiva le associazioni libere del paziente e dunque lo lascia parlare senza muovere critica alcuna.

Ad un certo momento il mediatore effettua la parafrasi: non fa altro che tener conto delle interazioni intrapsichiche di colui che ha davanti e cerca di effettuarne un disinnesco.

Il mediatore dunque ripete quell’interpretazione che IO dà della realtà; ciò rafforza IO nei confronti del SUPER IO che lo critica continuamente e tiene nel contempo a bada SUPER IO che ha ispirato l’esposizione.

Allo stesso tempo il mediatore depura il punto di vista del mediante dalla negatività che arriva inevitabilmente da ES. ES diversamente prenderebbe il sopravvento con la sua aggressività, in definitiva con il sadismo.

Il meccanismo è in sintesi: “Attacco perché provo piacere”, “Perché negare l’altro ed i suoi principi, mi dà immediata soddisfazione”.

Se dunque l’attacco non genera sofferenza nell’avversario, perché la negatività è depurata ES non può provare piacere e l’aggressività scema.

La depurazione di negatività fa sì che l’altro che a sua volta sfoga la sua aggressività, non trovi un’aggressività contraria che determinerebbe un moltiplicarsi delle energie distruttive di ES.

Ancora un piccolo cenno alle sessione private.

In sessione riservata il mediante si comporta dapprima proprio come il sognatore che davanti alla bizzarria del suo sogno non vorrebbe riconoscerlo come propria produzione.

E alla domanda del mediatore che apre la sessione separata: ”Che cosa vorrebbe aggiungere che non ha inteso dire in sessione congiunta?”, risponde: ”Non ho nulla da dire… (pausa, ecco che opera la censura di SUPER IO così come avviene nel sogno), e poi aggiunge:” Ma veramente qualche cosa ci sarebbe…” (ecco che ES inizia a disvelarsi).

Così come lo psicanalista evoca le associazioni del sognatore perché consentono di passare dal sostituto deformato al materiale autentico sostituito, il mediatore cerca di far lasciare per un momento al mediante le configurazioni giuridiche che sono sostituti del vero materiale, le esigenze.

Per giungere dal contenuto manifesto del sogno a quello latente il terapista chiede al paziente la sua opinione perché nessuno meglio di quest’ultimo può recarla, stesso principio vale per il mediante che ha espresso in congiunta una data posizione.

Il sogno latente contiene più elementi del sogno manifesto, perché il sogno manifesto opera per condensazione, ossia fa un sunto del contenuto latente che è più vasto.

Così le esigenze del mediante di norma sono più numerose delle posizioni giuridiche; i punti di vista giuridici sono in fondo condensazioni delle esigenze, alludono alle esigenze che non sono state palesate in congiunta.

Ma può accadere anche il contrario: così come un elemento manifesto può corrispondere a più elementi latenti, un elemento latente può corrispondere più elementi manifesti e questa relazione reciproca si ritrova anche in mediazione tra punti di vista ed esigenze.

La prima fase della sessione privata è anche deputata a mostrare all’IO che la sua percezione della realtà è deformata dai filtri soggettivi, sociali e neurologici; ciò aiuta IO a liberarsi dal servaggio della sua percezione del reale e quindi dall’angoscia.

Il mediatore per entrare in empatia con ES e realizzare dunque un transfert (al pari del terapista) con il mediante utilizza con ES le stesse armi che SUPER IO utilizza con ES.

Dice dunque a SUPER IO con il rispecchiamento ed il ricalco “Puoi amare me, io sono come SUPER IO” e a SUPER IO “Io sono come te”;  e così si apre un passaggio verso le esigenze che stanno in ES e che IO aveva provvisoriamente rimosso perché SUPER IO glielo aveva chiesto (Devi essere così= “Le posizioni giuridiche sono queste e sono definitive; non ti è permesso di cambiarle”).

Nonostante il lavoro empatico possono rimanere le angosce che derivano dal rigore di SUPER IO, così come l’aggressività di ES.

Il rigore di SUPER IO si manifesta primariamente con l’invocazione dei principi o valori.

Bisogna qui capire se i principi e valori che IO manifesta e che determinano un senso di colpa, una chiusura o comunque sempre un dispiacere per l’abbandono della prospettazione normativa, sono effettivamente tali oppure se siano chiamati in aiuto da SUPER IO, quando la prospettazione giuridica piano piano comincia a sgretolarsi con le prime ammissioni delle esigenze.

Nel primo caso il mediatore si deve fermare, nel secondo può aiutare ES a manifestare le pienamente le sue esigenze.

Tanto SUPER IO tornerà presto con l’analisi della M.A.A.N. (potrà essere però disinnescato con la time line) e poi avrà campo libero quando alle alternative deputate a soddisfare le esigenze verranno applicati i filtri normativi. L’indebolimento di SUPER IO è dunque solo temporaneo, anche se poi il suo ruolo si svolgerà sugli interessi riformulati e dunque su una nuova prospettazione del conflitto.

Quanto all’aggressività di ES in questo momento si manifesta sostanzialmente attraverso paura e rabbia.

Il mediatore anche in questo caso lascerà sfogare le emozioni e si limiterà a disinnescare con domande le percezioni selettive e le aspettative mancate che non sono altro che resistenze sul cammino del rinvenimento delle esigenze.

Questa breve e parziale riflessione non può che portare lo scrivente a ritenere essenziale in un corso da mediatore professionista la trattazione e lo studio  dei principi che stanno alla base della psicologia dinamica.