Da quando in Italia è stata introdotta la mediazione civile e commerciale fare riferimento all’accesso alla giustizia è diventato quasi una moda.
Ancora da ultimo la preoccupazione di un celere accesso ha segnato anche la negoziazione assistita che ha visto approvare in Commissione al Senato un emendamento che alcuno ha giudicato come una minaccia alla mediazione; in realtà si trattava soltanto di un raccordo con la disciplina del codice privato delle assicurazione che prevede a sua volta dei termini procedibilità[1], per impedire che il giudizio non fosse ritardato.
A chi scrive questa preoccupazione di un celere accesso appare nei fatti poco sensata, visto che una volta compiuto l’accesso, è esperienza comune che almeno nel nostro paese possono passare anche diversi anni senza che si ottenga una sentenza di primo grado.
Il Consiglio d’Europa ci ha appena riferito ad esempio[2] che nel 2012 da noi per una procedura fallimentare potevano passare anche 2500 giorni e che peggio di noi quanto a ritardi nei procedimenti civili erano messe solo la Bosnia e Malta.
A chi scrive appaiono due strade possibili: o si ammette che il principio dell’accesso alla giustizia non abbia più una valenza pratica e si chiude ogni discussione in segno di resa oppure si va a verificare che cosa in realtà ha significato nei secoli e ci si interroga sulla possibilità di recuperare qualche idea che si ritenga di qualche applicabilità.
Il concetto dell’accesso alla giustizia in passato non era così riduttivo, nel senso che andava a toccare diversi profili, non solo la possibilità del giudizio, ma pure i costi, la sua speditezza e la responsabilità degli attori del giudizio stesso, ossia degli avvocati e dei giudici.
L’accesso alla giustizia venne visto in primis come una questione di denaro.
Non è il caso qui di ripercorrere le vicende di Caligola che mise fuori legge le conciliazioni perché c’era una evasione delle tasse giudiziarie (il 40% dovevano finire, almeno così ci racconta Svetonio, nel patrimonio dell’Imperatore).
Anche se questo problema è quanto mai attuale: nella relazione al decreto-legge 132-14 si stima (e la stima è stata contestata dalla nota del bilancio) che dall’approvazione della negoziazione assistita possa derivare un danno per l’erario di 3.500.000 di euro per mancati introiti.
Noi comunque lo superiamo stanziando nuove somme a favore del Ministero della Giustizia: in sostanza gli stipendi ai giudici vengono corrisposti (eccome, scrive da ultimo il Consiglio Europeo) anche se le cause diminuiscono.
Ma nell’antichità le cose non erano così semplici. I giudici antichi di norma erano pagati dalle parti dopo la sentenza.
Così Federico II non poté che trarne la conseguenza quando disciplinò la conciliazione preventiva e quella giudiziaria, col principio che la prima si potesse fare seriamente sino alla litis contestatio e che successivamente era vietata a meno che la Corte non la autorizzasse.
Cito qui un passo delle Costituzioni federiciane per comprendere sino in fondo di che cosa stiamo parlando.
“A coloro che vogliono rinunciare alla lite anche con un patto, o soltanto cominciare le transazioni dopo che è stata emessa la citazione, ma prima che la lite sia contestata non neghiamo il permesso ad eccezione di qualche pena per la contumacia; invece lo neghiamo, senza il permesso espresso della Corte, dopo che è intervenuta la contestazione della lite. Se si tentasse di fare ciò in frode ai nostri diritti, (a) il terzo della parte che il frodatore paga all’attore per l’accordo transattivo, compenserà la diminuzione fiscale. (b) Al contrario se il convenuto per qualche motivo nella predetta occasione non desse all’attore alcunché o meno di quello che le Corte ha perso per la menzogna, (c) pagherà il doppio della terza parte predetta che il confessato dovrebbe dare”[3].
Questa concezione arriverà integra al Conciliatore del Regno delle Due Sicilie del primo ‘800 e si si trova ancora oggi nelle credenze della Comunità Europea, per quanto quest’ultima sia a favore anche della mediazione delegata dal giudice. Ben prima della Comunità Europea dunque il codice etneo stabiliva “che lo sperimento delle conciliazioni, come atti volontari, non può comunque impedire il corso de’ giudizj”[4].
Ma alla base del riconoscimento della sacralità dell’accesso alla giustizia non c’era sostanzialmente, a mio sommesso parere, in questi provvedimenti che il timore di un mancato introito.
Ci sono però anche altri elementi che ci permettono di inquadrare il senso del processo per un uomo antico e dunque a tratteggiare ulteriormente il concetto di accesso.
Con Ruggero II di Sicilia, il nonno di Federico II, si ribadiscono ad esempio prescrizioni in materia di avvocatura[5] che mi paiono di grande interesse per il tema che stiamo trattando. Siamo tra l’XI e il XII secolo.
Dalla lettura si comprende che comunque le cause meritevoli di essere portate davanti al giudice per gli uomini di quel tempo, erano soltanto quelle giuste in fatto ed in diritto.
- Gli Avvocati tanto in Napoli, che nelle Province, prima di ricever l’officio devono giurare sopra il Vangelo, che corporalmente toccheranno, di difendere le cause con tutta fedeltà, e verità senza postergazione alcuna; di non istruire le parti intorno al fatto; di non allegare contro la propria coscienza; e di non prendere cause disperate, e colorite di mendacio, anche se nel principio siano loro sembrate giuste, e nel corso del giudizio le conosceranno ingiuste nel fatto e nel diritto, debbano incontanente abbandonare il patrocinio, né altro Avvocato possa prenderne la difesa. Giureranno ancora di non domandare maggior salario nel processo del giudizio, né patto di darglisi porzione della lite. Questo giuramento devono rinnovarlo ogni anno avanti il Maestro Giustiziere, o Giustiziere: e se contravverrà alcuno, sia rimosso dall’ufficio con perpetua nota di infamia e condannato in tre libbre d’oro a beneficio del Regio Fisco.
Peraltro ancora con Ferdinando IV (1759-1806) cui spetta la creazione del Collegio degli Avvocati del Foro napoletano, i legali dovevano giurare ogni anno nelle mani del Presidente del tribunale di difendere le cause giuste e di “ributtare le cause ingiuste”[6] .
Il Collegio degli avvocati era tenuto a “cassare” ossia a punire gli avvocati che difendessero le cause ingiuste con la perdita dell’esercizio della professione e l’eliminazione dall’albo [7].
In tutte queste norme sta forse anche un germe interpretativo del nostro articolo 24 della Costituzione: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
Forse quel termine “legittimi” avrebbe dovuto parlare appunto alla coscienza degli avvocati e dei loro clienti.
Ma forse in quella coscienza non riponeva tanto affidamento nemmeno l’Onorevole Codacci Pisanelli quando in sede della Costituente propose un emendamento poi respinto all’articolo 19 (che poi sarebbe diventato appunto il nostro art. 24) che dava questa veste al primo comma della norma: “Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto”.
Ma torniamo indietro ancora di qualche secolo.
Il principio di accesso alla giustizia venne decisamente colorato e sviluppato sia con Carlo Magno[8] sia con le Costituzioni di Federico II[9]. Il Sovrano si concentrò in particolare più semplicemente sul “Dovere del Giudice”
- 1. Stabiliamo che tutti i Giudici del Regno, qualunque grado di giustizia tengano, e nome, nell’ascoltare, e decidere le cause debban osservare quest’ordine: primo, di spedire le cause delle Chiese, indi, quelle del Fisco, poi dei pupilli, orfani, vedove, e persone miserabili, in ultimo quelle degli altri.
- Per un dovere pietoso, colla presente legge stabiliamo, che ai pupilli, vedove, orfani, poveri, e deboli, che siano attori, o rei, i quali avranno lite in giudizio coi potenti, o non potenti, o col Fisco, si dieno loro gratis Avvocati valorosi, e spese necessarie del nostro Erario per vitto, mentre assisteranno nella Corte, e per produrre i testimonj; come pure sieno esenti dai pagamenti di sportule degli Attuarj (cancellieri), e Portieri (ufficiali giudiziari), ed ai Notaj per le scritture, e anche del diritto delle sentenze.
- Colla presente legge decretiamo, che in tutti i giudizj, quando la causa sia proposta, non si lasci indecisa per darsi mano ad un’altra, ma si spedisca prima l’introdotta: e se sarà di tal natura che non possa spedirsi, si riduca a quel termine, che lo stato della causa richieda.
- Comandiamo che tutti i giudici debbano profferire le sentenze in iscritto, e facendole verbali, si reputino nulle, e saranno costretti di risarcire ai litiganti ogni danno, e spesa.
- I Giudici siano ammoniti, che giudichino le cause secondo la legge, ed abbiano le mani monde, e di non vendere con oro la giustizia; ed acciocché la lor opera sia rimunerata, lor concediamo la trigesima di tutto il valore della lite in giudizio petitorio, e la sessagesima nel possessorio, da pagarsi dopo terminata la causa con sentenza, o transazione, da dividersi tra essi. Avranno simile porzione delle composizioni dei delitti, e delle cose incorporali, come ragioni e servitù. Le prestazioni di questo salario si faccia spontaneamente dalle parti, o si costringano col pegno col voto della Corte.
(omissis)
- Tutti i Giudici, ed Officiali Regi, dovendo avere le mani monde, non possono ricevere, neppure per mezzo dei loro familiari, dai litiganti e supplicanti, anche con promessa, doni in danaro, cavalli, armi, o altre cose preziose, o commestibili, sotto pena della privazione dell’officio, e d’infamia, e come ladroni manifesti sian puniti nel quadruplo a beneficio della Regia Corte, eccetto quanto possano consumare di vitto per due giorni una sola volta nel luogo dove faranno permanenza[10].
- I Baglivi[11], i Giudici, e Notaj degli atti debbano da mattina a sera attendere al loro officio, fuorché nelle ore necessarie per mangiare e dormire. Si eccettuano i giorni di Natale, e Pasqua, tutte le domeniche, e le festività della Beata Vergine, e dei Santi Apostoli: ma per le stipole dei contratti, e strumenti, si osservi dai notaj la costumanza.
- Tutti i Baglivi, e Giudici fra due mesi devono terminare le cause, computandi dal giorno della citazione, a meno che per causa della prova non si richieda maggior tempo dalla parte che dovrà giurare, che non sia per motivo di dilazionare.
Le cause devono avere dunque un certo ordine, per i poveri ed i deboli la giustizia deve essere gratuita e vanno addirittura sfamati nel giorno del giudizio, non si può iniziare una causa quando ce ne è un’altra in piedi da giudicare, la causa si deve chiudere con una sentenza scritta, i giudici non possono accettare nulla dalle parti se non il loro legittimo pagamento, predeterminato nell’ammontare, i giudici devono lavorare dalla mattina alla sera, eccettuati i giorni festivi; il tempo massimo di decisione, salve eccezioni, non deve superare due mesi dal giorno della citazione.
Tutto ciò contribuiva a dare un significato chiaro al concetto di accesso alla giustizia che forse dovremmo prendere in considerazione anche noi senza cadere in facili quanto irrealizzabili propagande.
[1] Art. 3 c. 4 decreto-legge 132-14 in sede di conversione:.” Restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati. «Il termine di cui ai commi 1 e 2, per materie soggette ad altri termini di procedibilità, decorre unitamente ai medesimi».
[2] V. il rapporto sulla qualità ed efficienza della giustizia nei 47 stati che fanno parte del Consiglio Europeo https://mediaresenzaconfini.org/2014/10/10/rapporto-sullefficienza-e-qualita-della-giustizia/
[3] Titulus CVII
De pactionibus inhibitis, et de volentibus a lite discedere
Sponte volentibus a lite discedere pacta etiam, vel transactiones inire post citationem emissam ante litem contestatam tantum in civili judicio, absque ulla contumaciae poena licentiam partibus non negamus; post contestationem vero litis habitam sine licentia, et jure Curiae expressius hoc partibus inhibemus. Quod si hoc facere in fraudem iuris nostri tentaverint, (a) ejus tertiam, quod pro transactione actori exolvit conventum absque diminutione aliqua fisco nostro componet. (b) Si autem reus aliquid actori pro praedicta occasione dederit, et nihil, aut minus se dedisse in dispendium Curiae mentiatur, in ejusdem infitiationis poenam (c) duplum tertiae supradictae, quam confessus dare debuisset, exolvat. Quae omnia diligenter per officiales nostros inquiri volumus, ut sicut cuilibet ius suum inviolate servamus, sic in jure nostro defectum perpeti non possumus. Cfr. C.A. Calcagno, Breve storia della risoluzione del conflitto, Aracne Editrice Srl, 2014 p. 62. In http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=978885487515
[4] Preoccupazione che era ben viva già dal 1770 negli stati Sardi.
[5] Advocatorum officium t. 84 l. 1
[6] Art. 8 Prammatica del Sacro e Geloso Offizio.
[7] Art. 11 Prammatica del Sacro e Geloso Offizio.
[8] Lo possiamo ad esempio vedere da un decreto che emise nell’811.
Se i Conti non fecero giustizia nell’ambito del loro ministero, allora un nostro Misso abbia cura della causa per conto nostro, sino a quando non sia stata fatta giustizia. E se un Vassallo nostro non fece giustizia, allora i Conti,
e il nostro Misso siedano nella stessa casa, a loro spese, e rendano giustizia a tutti (II. 52.2.).
[9] L. justi cultori t. 33 l. 1; l. presenti t. 34 l. 1; l. presenti t. 35 l. 1; Ab omnibus t. 78, l. 1; Cum circa justitiae tramites t. 74 l. 1; Apud Justitiaros t. 55 l. 1; Bajulos t. 76 l. 1; Omnes Bajuli t. 77 l. 1.
[10] http://books.google.it/books?id=C_XaQcq6CK0C&pg=PA173&dq=compare+di+giustizia&hl=it&sa=X&ei=ew9IVO6qC-njywOR94DADQ&ved=0CD0Q6AEwBQ#v=onepage&q=compare%20di%20giustizia&f=false
[11] Si occupavano delle cause minori soprattutto in materia di pascolo, del furto di animali; potevano giudicare oppure delegare il giudizio ai boni homines o ancora rimettere le questioni non di competenza i giudici superiori.