Voglio iniziare questa nota con la voce di coloro che non condividevano una larga applicazione dell’istituto della conciliazione; prima dell’Unità d’Italia li troviamo sostanzialmente nel Regno di Sardegna.
Le loro argomentazioni meritano di essere citate perché sono – per quanto non condivise da chi scrive – attualissime, se solo pensiamo al dibattito in merito alla mediazione civile e commerciale che si è sviluppato tra mediatori ed Avvocatura negli ultimi due anni.
Un esempio per tutti è costituito dalla relazione al Progetto di Codice di procedura civile presentato al Senato il 1° marzo 1850 dal ministro di Grazia e Giustizia (SICCARDI[1]): “È poscia da notarsi in questo medesimo titolo la disposizione per cui i giudici di mandamento, nelle cause di loro competenza, dovranno tentare tra le parti un amichevole componimento. Se buone ragioni hanno dissuaso l’esperimento della preventiva conciliazione in tutte le cause che devono intentarsi davanti ai tribunali, perché la volontà delle parti non vuole essere in niuna guisa costretta, e non si deggiono mai opporre ostacoli al libero esercizio di un diritto qualunque, e perché il tentativo della conciliazione, come altrove, nella massima parte dei casi si ridurrebbe all’adempimento di una mera formalità, con dispendio e perdita di tempo; il contrario è sperabile che intervenga nelle cause, dove il giudice che deve pronunciare incomincia a far le veci del conciliatore. Né è da temersi che il giudice, coll’interporsi fra le parti, sia per rinunziare a quella fredda imparzialità che deve presiedere ad ogni giudizio, perché nelle minori cause, in cui la sentenza del giudice è inappellabile, la interposizione può efficacemente servire a preparare un provvedimento conforme all’equità che deve in esse prevalere, e nelle cause maggiori rimane pur sempre alle parti il rimedio dell’appello”[2].
Bisogna aggiungere che la difesa del processo e l’avversione alla condizione di procedibilità furono nutrite negli Stati Sardi da radici profonde.
Giova ricordare al proposito due costituzioni, una del 1729 e l’altra del 1770[3]: <<Non potrà da qualunque Magistrato, Prefetto o Giudice farsi ordinanza o decreto, che obblighi le parti litiganti al concordio della causa, e se elleno desidereranno transigere, non potranno eleggere per arbitro o mediatore alcuno di quelli, nel tribunale de’ quali si trovasse pendente o potesse ella introdursi>>.
Le ragioni sostanziali di tale avversità sono ancor più risalenti e trovarono la goccia che fa traboccare il vaso proprio negli anni ’30 del XIX secolo.
Bisogna risalire al fatto che sin dall’antica Roma i rapporti tra Ebrei ed il potere imperante su un certo territorio erano regolati da condotte.
Si trattava sostanzialmente di accordi temporanei che venivano siglati con l’Università ebraica e che il potere spesso si rimangiava, specie quando c’erano in gioco forti interessi economici: uno degli esempi più eclatanti in proposito avvenne in Francia durante il regno di Filippo il Bello.
Tale pratica riguardava anche i domini savoiardi ove spesso il Principe ignorava la condotta e restringeva il perimetro dei ghetti a sua discrezione, perché i proprietari potessero vendere o locare le abitazioni che ne restavano fuori.
Ora siccome nei territori esterni al ghetto vigeva il secolare divieto di promiscuità tra Ebrei e Cristiani il Principe si riteneva legittimato a scacciare gli occupanti che a loro volta contrapponevano uno speciale diritto reale[4]. Nascevano dunque innumerevoli controversie tra i locatori che spesso erano cristiani e i conduttori ebrei che erano risolti tramite conciliazione obbligatoria.
Ora nel 1836, proprio in relazione al divieto di promiscuità, si presentò un’altra grave questione: i Savoia ingiunsero agli Ebrei che ne erano usciti di rientrare nei loro ghetti entro un anno e ai Cristiani di uscirne nel tempo medesimo.
Ciò comportò nuove controversie perché i Cristiani potevano soltanto affittare le loro proprietà presenti nel ghetto agli Ebrei e questi ultimi non volevano pagare quanto richiesto per le pigioni[5].
Ciò portava peraltro anche ad abusi ed allora ad un certo punto si ritenne solidalmente responsabile l’università locale ebraica per le pigioni che l’ebreo non avesse voluto corrispondere dopo aver impedito al padrone una successiva locazione[6].
In questo stato di cose si istituirono delle speciali commissioni che dovevano far rispettare le antiche legislazioni in materia.
Al proposito le Regie Patenti 22 marzo 1836 decretarono quanto segue: “Art. 1. Avochiamo a Noi la cognizione di tutte le controversie, che dipendentemente dagli ordini da Noi dati per richiamare gi Ebrei e fissare la loro dimora nel ghetto rispettivo possano insorgere relativamente alla stipulazione o risoluzione dei contratti di affittamento, e alle pigioni, o incennità riguardanti le casi da occuparsi o evacuarsi, tanto nel recinto del ghetto, che fuori, e quelle abbiamo commesso e commettiamo ad una particolare Delegazione, che verrà stabilita nel Capoluogo di ciascuna provincia, in cui esistono ghetti di Ebrei: <<2. Sarà questa Delegazione composta dal Prefetto e dall’Intendente, e del primo Assessore del Tribunale dei Prefettura della Provincia…. << 3. Conferiamo alla suddetta Delegazione tutte le autorità necessarie e opportune e quelle eziandio del Prefetto Pretorio per provedere nel modo più pronto e sommario, previo sempre l’esperimento della trattativa amichevole tra le parti, sovra tutte le predette controversie, loro annessi, connessi e dipendenti”.
In questa situazione appare logico che i sudditi savoiardi cristiani non vedessero certo di buon occhio la condizione di procedibilità e dunque questa divenne un problema giuridico e politico di particolare urgenza e rilevanza.
Ho raccontato questa storia perché si rifletta sul fatto che quando si pone fine ad una condizione di procedibilità, non sempre si reca un servizio a coloro che sono più deboli ed hanno minor potere contrattuale.
L’ostilità in Parlamento per la conciliazione svaporò comunque dopo il 1860, probabilmente perché ci si rese conto che nella restante parte della penisola il tentativo di conciliazione costituiva un’importante realtà.
La prima voce che vorrei segnalare è quella del deputato napoletano Antonino PLUTINO, che fu uno della spedizione dei Mille.
Credo che sia una voce al di sopra di ogni sospetto perché combatté tutta la vita il regime borbonico e nonostante ciò spiegò una commovente difesa dell’istituzione dei Conciliatori, istituzione che gli stessi Borboni avevano voluto.
L’intervento è quello della discussione del disegno di legge per la tassa di bollo – sessione del 1861: “Io prego gli onorevoli miei colleghi di esaminare alquanto qual sia la condizione di coloro che si servono dei giudizi presso i conciliatori napoletani. È il basso popolo che va presso i conciliatori; innanzi ad essi si trattano le infime miserie della vita. Si parla qualche volta di otto, di quindici, di venti soldi; quasi quasi dirò che soventi la somma in contestazione sarebbe al di sotto dell’importare dell’imposta che vogliamo porre.
L’istituzione dei conciliatori è una istituzione benefica nel Napoletano. I decurioni scelgono l’uomo più influente, il più paterno, il quale il più delle volte colle sue maniere distrugge i rancori nascenti che potrebbero, sviluppandosi, portar gravi conseguenze. La bassa gente, ad ogni contestazione che ha, siccome non le tocca fare spesa alcuna, si presenta a questo paterno magistrato, e questi con delle buone maniere fa sì che si transiga su tutte le piccole questioni che versano sopra le miserie della vita.
Presso questo magistrato non c’è bisogno di pagare i testimoni, non c’è bisogno di pagare i procuratori; o mediante una lettera o su una deposizione di un conoscente della parte, che sia conosciuto pure dal giudice, si accettano anche i mandati di procura. In conseguenza non è che un giudizio puro e semplice, economico, una vera conciliazione, un giudizio paterno, il quale prego i miei onorevoli colleghi di por mente che produce grandissimi vantaggi alla società. Tutti quegli urti che succedono continuamente nel basso popolo del Napoletano, e che spesso se non vi fosse questo mezzo, questo sfogatoio, dirò così, di giustizia alla mano, senza spesa, potrebbero produrre grandissimi eccitamenti alle ire di quei popoli che già non hanno bisogno di essere spinti per la lor naturale vivacità, tutti quegli urti, dico, tutte le ire nascenti si appianano, si tranquillizzano con l’opera del conciliatore[7]”.
Il secondo intervento che ho scelto, estratto sempre dallo stesso contesto, è quello del deputato abruzzese DE BLASIIS: ”Che cosa è il giudice conciliatore nelle provincie napoletane? È un giudice temporaneamente eletto fra i cittadini di ciascun comune, e che esercita la sua giurisdizione senza che abbia diritto ad alcun pagamento.
La procedura presso questo conciliatore è una procedura essenzialmente economica e sommaria. Chi avanza una somma al di sotto dei 6 ducati, ossia di poco più di 23 lire, per mezzo del serviente del tribunale chiama il suo debitore davanti al conciliatore, e la citazione non importa più di otto grana ossia cinque o sei soldi; le parti si presentano così senz’altra spesa innanzi al conciliatore, e questi in via sommaria, e facendo prendere semplici note dal cancelliere comunale che lo assiste, sente le parti e le combina alla meglio: rare volte vi è d’uopo di redigere una sentenza formale, e questa sentenza, quando debba prendersene copia legale per eseguirla, non porta altra spesa che di un carlino, ossia di circa otto soldi.
Con questa brevità di tempo, e con questa spesa minima, si ha il vantaggio che tutte le cause a di sotto dei sei ducati, ossia al di sotto di 23 o 24 franchi, si trattano in via economica, sommaria; le più modiche esazioni si ottengono facilmente, e certe piccole liti, le quali altrove s’inveleniscono, appunto per l difficoltà di farle, sono agevolmente espletate, e finiscono con la più grande concordia tra i litiganti[8].
Alla luce di queste parole ci si chiede per quale motivo importanti accademici abbiano affermato, anche di recente, che la conciliazione nel Napoletano fosse lettera morta: certo tale attestazione non ha giovato alla costruzione di una cultura di pace nel nostro paese.
Il 9 febbraio 1862 venne presentato alla Camera dal relatore Ministro della Giustizia Vincenzo Marino MIGLIETTI[9], il progetto di Ordinamento giudiziario pel regno d’Italia.
Con queste parole l’insigne giurista illustrò all’aula l’istituzione del Giudice conciliatore: ”I Giudici conciliatori hanno fatto ottima prova nelle provincie del Mezzogiorno: destinati a sopire senza osservanza di rito giudiziario le minori vertenze, esercitano in ciascun comune un ufficio benefico di conciliazione e di concordia, e mentre provvedono al bisogno di una giustizia facile, non dispendiosa ed essenzialmente locale, contribuiscono altresì a mantenere le buone relazioni e a stringere sempre più i rapporti di amichevole vicinato tra i singoli comunisti. Come istituzione eminentemente proficua ho creduto utile dovessero i giudici conciliatori estendersi a tutte le provincie del regno, ed è per questo che li ho posti al primo gradino nella scala delle autorità giudiziarie fissandone la missione, le condizioni d’idoneità, di nomina, d’esercizio, l’indole e la durata delle funzioni e le norme delle relative supplenze”[10].
Qualche anno dopo, nel 1867, l’opinione suddetta non era certo stata smentita; né è prova il pensiero del deputato Luigi MINERVINI: “Ed invero, che cosa sono i conciliatori? Sono una magistratura che interpone il suo ufficio di paciere; e per questa magistratura, dirò, paternale, la società non deve dire che ha uopo di spesa, imperocché non è retribuita per un servizio, che si stima essere un dovere umanitario-civile. Questa magistratura non presta un servigio, si propone un’opera filantropica, quella, cioè di spegnere le piccole liti le quali tormentano le piccole fortune, le piccole paci domestiche, che pure sono di altissimo interesse: ha poi il compito di prevenire ogni lite fra cittadini che nelle loro divergenze, di qualunque lavoro, spontanei invocano l’opera dell’amico, del conciliatore. E questa istituzione, nei paesi di dove ci venne, aveva l’esenzione da ogni bollo e da ogni tassa di registro. E così sta pure sancito nel Codice che la estese a tutta l’Italia”[11]… La conciliazione favorisce la moralità, spegne le ire e i danni, e voi vorreste contrariarla per un gretto guadagno fiscale, senza titolo e senza diritto ad imporlo? Innanzi al Conciliatore non vi sono atti, difese, nulla di processo. Se la comparsa in conciliazione la circondate di fastidio, di spesa o di tassa, le parti o non ci andranno, oppure invece di scrivere, parleranno. Perché in una conciliazione si può ben prescindere dal presentare atti e si può dire l’occorrenza nel verbale. E nell’un caso e nell’altro lo scopo propostosi dagli onorevoli proponenti verrebbe a mancare di certo, se non vogliate tassare le parole, le sillabe.
E poi vi diceva l’onorevole Bolognini, ed aveva anche detto l’onorevole Barazzuoli: gli atti, i decreti e le sentenze. Ma atti non ce ne sono, decreti non ce ne sono, sentenze neppure, cosicché se levate queste parole dall’emendamento, io non so capire quale sia l’atto, la sentenza, il decreto ed altro che si possa fare per queste conciliazioni. Questa magistratura è quasi un onorevole munus publicum essenzialmente onorifico e gratuito. Sicché non potete a nome dello Stato che nulla paga, volere che i cittadini paghino senza titolo e senza ragione”[12].
[1] Il senatore Giuseppe Siccardi è un esempio di giudice che sceso in politica, decise di tornare alla magistratura, divenendo nel 1851 presidente della Corte di Cassazione.
[2] In G. GALLETTI- T. PALO, Atti del Parlamento Subalpino, sessione del 1850, dal 20 dicembre 1849 al 19 novembre 1850, Tipografia Eredi Botta, Torino, 1863, p. 447
[3] Art. 13 libro II, cap. I delle RR.CC. del 1729. Art. 13 del libro II, tit. I delle RR. CC. del 1770.
[4] Contro questa pratica gli Ebrei sostenevano che un passo del Deuteronomio (Capitolo 27, versetto 17) avesse conferito un diritto reale detto di kasagà, in base a cui un ebreo poteva impedire che un altro ebreo conducesse la sua abitazione o che il padrone di casa locasse la propria dimora ad altro ebreo dopo averla appunto affittata in precedenza ad un israelita.
[5] Cfr. L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, Tipografia Favale, Torino, 1848, p. 120 e ss.
[6] L. VIGNA – V. ALIBERTI, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, op. cit., p. 121 e ss.
[7] G. GALLETTI- T. PAOLO, Atti del Parlamento Italiano, Sessione del 1861, Continuazione del secondo periodo (dal 26 febbraio al 12 aprile 1862), VIII legislatura, Seconda edizione riveduta, Discussioni della Camera dei deputati, volume IV, Tipografia Eredi Botta, Torino, 1862, p. 2076.
[8] G. GALLETTI- T. PAOLO, Atti del Parlamento Italiano, Sessione del 1861, Continuazione del secondo periodo (dal 26 febbraio al 12 aprile 1862), VIII legislatura, Seconda edizione riveduta, Discussioni della Camera dei deputati, volume IV, Tipografia Eredi Botta, Torino, 1862, p. 2080.
[9] Fu il primo Ministro di Grazia e Giustizia e Affari ecclesiastici del Regno d’Italia nel Governo Ricasoli I ed a lui dobbiamo grande riconoscenza non solo perché stabilì che ci fosse un’unica Corte di Cassazione, ma perché volle fortissimamente l’istituzione dei Tribunali di Commercio e soprattutto del Conciliatore.
[10] ATTI DEL PARLAMENTO ITALIANO, SESSIONE DEL 1861, VIII legislatura, vol. II Tipografia Eredi Botta, Torino 1862.
[11] Discussione sul progetto di legge di modifica del registro e del bollo
In Rendiconti del Parlamento Italiano sessione 1867, Seconda edizione ufficiale riveduta, Volume VI, dal 28 aprile al 24 giugno 1868, Eredi botta – tipografia della Camera dei deputati, Firenze, 1868, p. 5907.
[12] Luigi Minervini, Deputato. Camera dei Deputati- Sessione del 1867
Discussione sul progetto di legge di modifica del registro e del bollo
In Rendiconti del Parlamento Italiano sessione 1867, Seconda edizione ufficiale riveduta, Volume VI, dal 28 aprile al 24 giugno 1868, Eredi Botta – tipografia della Camera dei deputati, Firenze, 1868, p. 5908.