L’incontro di mediazione si tiene, come accennato, in luogo riservato del palazzo di giustizia: tuttavia, a differenza che nella mediazione “occidentale”, i terzi che siano interessati alla mediazione possono essere invitati a presenziare d’ufficio dalla Commissione.
La partecipazione personale è obbligatoria per tutti, a meno che non ci si avvalga di rappresentanti legali; se non ci si presenta ingiustificatamente si può essere condannati a pagare una multa di 50.000 yen (455 euro).
La procedura si stempera attraverso una prima sessione introduttiva nella quale si spiega la procedura alle parti ed in tutta una serie di sessioni private successive.
Non si svolgono sessioni congiunte per evitare che gli sfoghi delle parti possano ledere il prestigio della commissione: in questo senso la mediazione non può considerarsi una “negoziazione assistita” come da noi.
La commissione può fare delle proposte concrete ed incoraggiare le reciproche concessioni tra le parti[1].
I Giapponesi sono, infatti, in un certo senso mentalmente predisposti ad accontentarsi di qualche cosa di meno di quello che potrebbero ottenere attraverso il giudizio.
La procedura può durare alcuni mesi, così come può interrompersi in qualunque momento perché la commissione può dichiararla inappropriata al caso in esame ovvero può considerare l’accordo raggiunto come irragionevole o sconveniente.
Se le parti si conciliano e l’accordo invece non è contrario all’ordine pubblico o alla legge esso viene formalizzato e registrato dalla Corte[2].
Se le parti non si accordano o la mediazione fallisce la Corte può di sua iniziativa formulare un ordine di determinazione in sostituzione dell’accordo di mediazione che però deve tenere conto del parere della Commissione e delle proposte fatte dalle parti[3].
In Giappone esistono poi la procedura di divorzio mediato (“chotei rikon”).
La chotei rikon ha un ambito assai vasto e riguarda l’invalidità del matrimonio, la nullità del matrimonio, l’invalidità e la cancellazione del divorzio, il riconoscimento degli stati di vita o di morte in relazione al matrimonio, l’annullamento e la nullità dell’adozione, le dispute riguardanti la presenza o l’assenza dei genitori nelle relazioni con i figli, la divisione delle spese del matrimonio, i diritti parentali e la cura dei bambini al momento del divorzio (compresi gli alimenti), la divisione della proprietà al momento del divorzio, la determinazione dei diritti dei genitori al momento del divorzio, la modifica dei diritti dei genitori.
In Cina il primo caso di mediazione che i libri storici ricordino risale a circa 4000 anni prima di Cristo.
Si narra che il re Sheun riuscì a conciliare i membri di alcune comunità del suo regno che erano in contesa tra di loro per la proprietà di fondi e per la vendita di una partita di ceramiche[4].
Dell’utilizzo frequente della mediazione abbiamo poi soprattutto traccia nella Cina occidentale sotto la dinastia Zhou (1146-771 a.C.) e successivamente a livello nazionale durante la dinastia Qin (221 – 207 a.C.)[5].
Si racconta poi che tra il 206 ed il 24 a.C. un funzionario di nome Wu Han, chiamato a dirimere le controversie, riflettesse sulle proprie responsabilità nei litigi altrui e girasse per le case e per le strade della sua contea per riconciliare i litiganti[6]: comportamento quest’ultimo simile a quello che verrà tenuto quasi duemila anni dopo dal conciliatore del Regno delle Due Sicilie.
Nel terzo secolo a C. furono introdotte in Cina le leggi scritte, ma sotto l’impero di tutte le dinastie sino all’ultima, la Qing (1911) ci fu sempre un forte pregiudizio verso il processo ed il diritto[7].
I Cinesi (ma anche i Coreani), considerano da sempre la regolazione dei rapporti umani attraverso la norma giuridica come un sistema rudimentale da utilizzarsi solo nei casi estremi (diritto penale).
Essi non hanno mai avuto in animo di risolvere i contrasti, ma di dissolverli ed hanno sempre ritenuto che l’astrattezza della norma giuridica non possa aiutare in tale compito, ma al contrario impedisca la ragionevolezza degli accomodamenti, se non costituisca addirittura fonte di disordine sociale[8].
In tale credenza i Cinesi assomigliano in qualche modo agli antichi Romani che avevano in origine un diritto consuetudinario e sino al Dominato[9] rifuggirono da una produzione di norme generali ed astratte, perché ritenevano che un’applicazione meccanica potesse risultare iniqua nei casi concreti[10].
Le leggi in Cina sono solo dei modelli discorsivi a cui avvicinarsi; gli stessi contratti vengono redatti in termini evasivi perché non servono a prevenire i contrasti futuri, ma a dare voce all’intesa delle parti[11].
In questo immenso paese la necessità della mediazione dipese dall’organizzazione sociale: nei villaggi non erano diffusi né l’industria né il commercio; la popolazione era formata per la stragrande parte da contadini ed artigiani che erano per lo più parenti tra di loro.
Di tale organizzazione tennero conto naturalmente anche i precetti filosofici: Confucio insegnava che il giovane doveva rispetto e obbedienza agli anziani e che tutte le persone che componevano il clan familiare dovevano amarsi ed aiutarsi a vicenda.
Durante la dinastia Ming[12] ogni villaggio era tenuto a costruire un padiglione denominato “shenming” ove i vecchi locali e la gente più colta risolvevano come giudici le controversie della gente del luogo, e nella maggior parte dei casi intercedevano per una soluzione pacifica.
A seguito di questi procedimenti sono nati alcuni precetti la cui osservanza tra le comunità locali è giunta sino ad oggi.
Le dispute andavano sottoposte in primo luogo al capo clan familiare che le risolveva secondo le regole di quella data comunità.
Il rispetto verso il sentimento dei clan familiari e di parentela era fondamentale e trascendeva ogni ragione di debito e credito, di torto o ragione; in altre parole il sentimento dei parenti e del clan patriarcale era molto più importante degli interessi del singolo.
Le regole etiche del clan erano e sono ancora oggi superiori anche alle leggi.
In particolare secondo l’etica del clan patriarcale i ricchi devono aiutare i poveri, e i forti devono sostenere i deboli.
Colui che rinunciava consapevolmente ai propri interessi per porre fine alle controversie con i suoi parenti era molto apprezzato dall’opinione pubblica, mentre colui che si rifiutava di aiutare i suoi parenti più deboli era oggetto di critica perché dimenticava la giustizia.
L’ordine sociale ideale era considerato quello dell’armonia e dell’assenza di contenzioso.
Per Confucio il compito più rilevante per un governante era quello di insegnare al popolo a vivere appunto senza contenzioso.
Coloro che ricorrevano al contenzioso venivano considerati volgari ed immorali e si riteneva che non avessero mantenuto alta la reputazione della famiglia, perché il compito della famiglia era appunto quello di istruirli a non coltivare contenziosi.
Gli stessi funzionari sin dall’antichità, in presenza di queste regole, erano assai cauti nell’intervenire nelle controversie, anche quando richiesti, e consideravano che sottolineare il torto o la ragione potesse comportare soltanto inimicizia tra i parenti; non era poi tanto importante punire chi violasse le regole familiari, ma fare in modo che comprendesse i suoi torti e cambiasse modo di vivere.
Oggi, con lo sviluppo dell’economia di mercato e la modernizzazione del sistema giuridico, la percentuale delle mediazioni si è notevolmente ridotta, ma la procedura è ancora ampiamente praticata per tre motivi: perché la legislazione è incompleta, vi sono carenze logiche ed assenza di dettaglio, le disposizioni legali sono vaghe e difficili da interpretare; in secondo luogo le sentenze sono difficilmente eseguibili a causa di vincoli finanziari, ed in ultimo perché la mediazione consente di mantenere un buon rapporto d’affari tra i due litiganti, mentre la sentenza emessa da un giudice può tradursi in una rottura nelle relazioni umane e commerciali[13].
Nel particolare si può aggiungere che a partire dalla nascita della repubblica Popolare di Cina (1949) sino al 1980 la mediazione è tornata ad essere il sistema più usato per la composizione dei conflitti perché si diceva che le Corti dovevano adottare metodi democratici.
Dal 1980 al 2000 vi è stata invece una certa flessione, dovuta al fatto che si è maggiormente consolidato l’utilizzo nel processo civile di regole generali, predeterminate e prescrittive e si è tentato di abbandonare le regole etiche, politiche od economiche; ma dal 2003 si è tornati alla mediazione in seguito alle mancate risposte della giustizia, soprattutto in materia di conflitto sociale.
I giudici hanno abbandonato dunque le norme generali per tornare a quelle del caso concreto[14].
Nel 2010 possiamo riscontrare sostanzialmente due categorie di mediazione, la Community mediation (Ren Min Tiao Jie), che è parte del sistema di risoluzione alternativa delle controversie, e la Court-performed mediation (Ting Fa Chu Mian Tiao Jie), che appartiene al sistema giudiziario.
La Community mediation è formata da Comitati di mediazione popolare[15] (o da Comitati di residenti di quartiere) che sono stati costituiti in villaggi, cittadine, unità di lavoro e nelle organizzazioni regionali o professionali per gestire le questioni civili, e penali di lieve entità.
Ogni comitato è composto da persone della comunità che vengono considerate giuste ed imparziali.
Sono elette per tre anni e vengono stipendiate con un modesto emolumento dal governo sia per fornire servizi di mediazione sia per educare il pubblico circa i diritti che derivano dalla legge.
Le parti non sostengono alcun costo per fruire dei servizi di mediazione.
La procedura di mediazione è flessibile, può vedere l’impiego di uno solo mediatore o di un gruppo di mediatori.
Il mediatore incontra le parti singolarmente o congiuntamente e le aiuta a risolvere la questione.
Si stima che questi comitati affrontino mediamente sette milioni di casi all’anno, con un tasso di risoluzione del 90 per cento.
La Court-Performed mediation prevede che il giudice a cui venga assegnata la causa conduca anche la mediazione.
A differenza della Community mediation, ed in relazione al fatto che il processo di mediazione è parte del processo contenzioso, le parti sostengono un costo aggiuntivo per la mediazione.
Il giudice ha qui forti poteri manageriali: può chiedere alle parti di partecipare alla mediazione in tribunale oppure può recarsi di persona nel villaggio per indagare e parlare con le parti e i testimoni.
La mediazione è di tipo valutativo, nel senso che il giudice mediatore può far notare alle parti i punti deboli delle loro posizioni, può utilizzare unitamente alle norme giuridiche anche i valori culturali in modo da facilitare la composizione, può suggerire proposte di accordo, può in ultimo sottolineare i benefici economici o sociali che derivano da un accordo.
Una volta raggiunta la conciliazione, il giudice redige un resoconto della mediazione in cui evidenzia le pretese, i fatti, e le convenzioni. Il documento è quindi firmato da tutte le parti e ha l’effetto di una sentenza del tribunale[16].
Anche se la mediazione è considerata procedura volontaria, qualcuno ha notato che questo modo di procedere potrebbe risultare coercitivo: insomma i giuristi cinesi sottolineano le stesse problematiche che aveva già il nostro conciliatore del 1865.
L’impostazione cinese attuale, dobbiamo aggiungere, non è poi così lontana dalla judicial mediation statunitense. E comunque l’esito, la conciliazione, si ritrova identica anche nel nostro ordinamento a partire dal decreto legislativo istitutivo della mediazione civile e commerciale.
Anche in India la mediazione ha un largo spazio da secoli.
Prima del dominio coloniale esisteva un sistema (pañcâyat) per il cui ripristino lottò anche lo stesso Ghandi.
La disputa tra due individui veniva rimessa ad un collegio di saggi che proponeva la soluzione del conflitto in base agli interessi dei due litiganti e della stessa comunità e solo se i due soggetti la rifiutavano assumevano una decisione vincolante.
Quindi il meccanismo era molto simile a quello antico cinese e giapponese.
In oggi la pañcâyat è più che altro un organo giurisdizionale.
Ha invece connotazioni più conciliative la cosiddetta “corte del popolo” (lok adâlat) che è formata da giuristi che ricercano l’accordo tra le parti in modo informale e secondo principi giuridici assai semplificati; la partecipazione alla procedura è assolutamente volontaria; vi è una decisione della corte solo se le parti si accordano e tale decisione non è appellabile[17].
[1] Più che facilitatore della comunicazione il mediatore è qui un conciliatore tipo il nostro del 1865.
[2] Si definisce chosho ed ha valore di sentenza.
[3] V. amplius K. FUNKEN, Comparative Dispute Management “Court-connected Mediation in Japan and Germany”, (March 2001) cit.
[4] P. CAO, The origins of mediation in traditional China, in Dispute Resolution Journal, May 1999.
[5] L. MEALEY-LOHMANN, Using mediation to resolve disputes – Differences between China and the United States, in http://www.chinainsight.info, 2010.
[6] P. CAO, The origins of mediation in traditional China, op. cit.
[7] L. MEALEY-LOHMANN, Using mediation to resolve disputes, op. cit.
[8] G. COSI, Perché conciliare? Op. cit.
[9] 235–565 d. C.
[10] V. A. BURDESE, Manuale di diritto privato romano, op. cit., p. 8.
[11] V. G. COSI, Perché conciliare?, op. cit.
[12] 1368-1644 d. C.
[13] P. CAO, The origins of mediation in traditional China, in Dispute Resolution Journal, May 1999.
[14] V. F. HUALING – R. CULLEN, From mediatory to adjudicatory justice: the limits of civil justice reforms in China, University of Hong Kong, 2007.
[15] In lingua inglese detti PMC (People Mediation Committees) o PCC (People Conciliation Committees).
[16] L. MEALEY-LOHMANN, Using mediation to resolve disputes, op. cit.
[17] G. V. amplius F. COLOMBO, La conciliazione in India: profili storici e prospettive attuali, in Ervan – Rivista Internazionale di studi afroasiatici n. 3 – gennaio 2006.