I sistemi di ordine negoziato in Oriente e nell’Occidente europeo (Parte prima)


L’arduo compito di questa nota è quello di dare un breve sguardo a come i meccanismi negoziali di composizione dei conflitti hanno interagito con la Storia e a come si pongono nel mondo odierno.

Preliminarmente mi pare importante illustrare separatamente il punto di vista di un uomo orientale rispetto a quello di un occidentale dinanzi al conflitto, poiché i sistemi di composizione si qualificano in primo luogo in relazione al differente modo di affrontarlo.

Si racconta che un famoso poeta[1] di Haikai assegnasse ad un suo discepolo il compito di comporre una lirica su di un peperoncino rosso.

Il testo che ne venne fuori fu il seguente: ”Se ad una libellula rossa strappassi le ali otterrei un peperoncino rosso”. Il maestro corresse prontamente lo studente: ”Se ad un peperoncino rosso aggiungessi le ali otterrei una libellula rossa”.

Al di là dell’insegnamento sulla non violenza così caro all’uomo orientale possiamo cogliere qui anche un altro elemento peculiare della sua mentalità: l’armonia è frutto dell’aggiunta, dall’unione degli elementi e non dalla loro sottrazione o divisione.

Questo insegnamento si traduce in un principio fondamentale che anche noi occidentali stiamo iniziando ad intuire come l’essenza della mediazione: la soddisfazione di coloro che negoziano può essere raggiunta soltanto se si ampia la base negoziale e non quando si riduce.

La qualcosa, ci insegnano, i popoli orientali si può raggiungere anche con una reciproca rinuncia: dal che si potrebbe dedurre che gli Orientali guardino alla mediazione come noi guardiamo alla transazione[2].

Ma la finalità  di questo strumento nei due sistemi è assai differente.

I Paesi dell’Asia orientale che sono influenzati dalla filosofia confuciana[3], possiedono una cultura della conciliazione per cui gli strumenti di ordine negoziato sono da tempo un meccanismo preferenziale per la risoluzione di una controversia.

Questa cultura è in netto contrasto con il contraddittorio occidentale, uno strumento basato sulla individualità, che considera i conflitti e le dispute secondo diritto[4].

In altre parole in  Oriente di fronte al conflitto gli uomini hanno da millenni una mentalità conciliativa e non cercano di affermare il loro diritto: di fronte ad una controversia si pongono in primis queste domande: “In che cosa ho sbagliato?, “quale era il mio dovere”?[5]

Sono convinti in poche parole che per condurre una vita perfetta, in armonia, è necessario compiere bene il proprio dovere[6] e non sconfiggere gli altri.

E ciò perché per l’uomo giapponese è condizione naturale fare ogni cosa in gruppo, sentirsi sotto lo sguardo attento di altri che lo considerano prezioso e desiderabile.

E dunque vivere deliberatamente per minimizzare l’interferenza dei propri malintesi, illusioni e sofferenze irrisolte.

Se prendiamo ad esempio il modello di mediazione giapponese[7] vediamo che esso si basa, sulla ricerca dell’armonia sociale, sull’adempimento morale, e su altre considerazioni extra-giuridiche.

I Giapponesi amano l’impegno sociale come strumento di  connessione, ma nello stesso tempo la cultura spinge ad uniformarsi ad un gruppo ristretto.

Hanno un concetto di società verticale, detto Tate Shakai[8] che permea tutte le interazioni tra gli individui, e determina le posizione di ogni individuo rispetto agli altri, sulla base di età, sesso, istruzione, e professione[9].

Della propria collocazione bisogna essere degni  ed appagati. Dunque è considerato un vero e proprio fallimento dover ammettere un errore ed essere redarguiti dalla struttura sociale di riferimento: i Giapponesi non amano quindi il processo e le procedure avversariali perché esse sono strutturate necessariamente per attribuire ragioni e torti e appartengono quindi ad una cultura della colpa che non conoscono.

Essi vivono, infatti, una cultura della vergogna (shame culture) come facevano gli eroi omerici, seppure per motivi e con esiti differenti[10].

Si dice che sussiste una cultura della vergogna laddove l’osservanza delle regole non è ottenuta attraverso divieti[11], ma attraverso modelli positivi di comportamento: chi non si adegua a questi modelli incorre nel biasimo sociale ed in una sensazione di inadeguatezza definita appunto “vergogna”.

Conseguentemente i Giapponesi pensano di essere eguali agli altri nel momento in cui evitano la lite, non quando la fomentano[12].

Il contenzioso è considerato, in altre parole, offensivo per coloro che vogliono mantenere in piedi il sistema vigente di sottomissione gerarchica alle autorità.

D’altro canto essi sono mossi anche dai principi di compassione e benevolenza.

Per i Giapponesi  del resto la stessa salute mentale dipende dall’interdipendenza. E per interdipendenza intendono uno stato esistenziale in cui si ricevono cure ed attenzioni dagli altri e si ricambiano.

In questa prospettiva la malattia mentale è vista come una disconnessione dagli altri ed un ritiro nell’egoismo[13].

Non stupisce dunque che i diritti legislativamente previsti non siano necessariamente riconosciuti dalla loro procedura non avversariale: i mediatori non sono cioè vincolati dal diritto o dal peso delle prove ufficiali[14].

Il loro negoziato si fa guidare più dalla ragione, dal senso comune, dall’equità e dall’etica.

Ciò li ha aiutati a guardare per millenni al proprio approccio alla questione e non alla persona dell’altro.

Questa è l’ottica che ha permesso loro di non considerare l’altro come un nemico, ma come un avversario che ha punti di vista differenti, un avversario con cui si può e si deve cercare una soluzione.

Dalla soluzione alla questione dipende, infatti, la crescita personale: attraverso l’altro si può mettere alla prova e valutare quelle che sono le proprie possibilità, capacità ed individuare quelli che sono i propri limiti.

Se si desidera, al contrario, annientare l’altro (considerandolo un nemico) si annienta in primo luogo la propria persona e la possibilità di crescita.

Per questi motivi sino alla fine dell’Ottocento in Giappone si ignorava addirittura il processo[15], gli avvocati erano pochissimi e pure nel Novecento nonostante i cambiamenti sociali il tasso di litigiosità non è aumentato: e ciò sostanzialmente perché il Giapponese nutre deferenza per l’Autorità e al culto per l’armonia,  ma anche perché il contenzioso richiede tempo e denaro ed anche avendo denaro e tempo a disposizione i risultati del contenzioso costituiscono una compensazione minima[16].

La tradizione di mezzi non avversariali di risoluzione delle dispute è perciò plurisecolare ed ancora oggi che il paese è di civil law, gli strumenti di ADR hanno la prevalente diffusione.

E ciò perché, lo ribadiamo, la risoluzione delle controversie in Giappone richiede il ripristino dell’armonia e la comprensione reciproca. La composizione armoniosa delle controversie attraverso la mutua comprensione è virtuosa, la lotta giudiziale è vergognosa[17].

Ultimamente si sta pensando ad una riforma della giustizia per valorizzare il contezioso giudiziario, ma alcuni partiti, al contrario, vorrebbero affidare un ruolo più ampio ai  metodi di risoluzione alternativi delle controversie[18].

I metodi di risoluzione alternativa delle dispute (Alternative Despute Resolution) in Giappone comprendono l’arbitrato, la mediazione, la conciliazione e, in generale, la negoziazione, per quanto in questo paese sia improprio per le ragioni che precedono parlare di alternatività.

Per la verità anche in Occidente oggi il termine “alternative” sta per “adeguato” al caso concreto.

Gli organismi di ADR si possono trovare nelle corti giapponesi, ma possono anche essere organizzazioni private.

La legge sulla promozione dell’uso della risoluzione alternativa delle controversie (The ADR act) è stata emanata nel 2004 ed è entrata in vigore il 1° aprile 2007[19].

Questa legge mira ad assicurare che i meccanismi di ADR siano equi ed efficaci, limitando il numero degli organismi a quelli che sono autorizzati dal governo[20].

I principali metodi utilizzati in Giappone sono comunque l’arbitrato (“chūsai“), e la mediazione collegata al giudizio (“chōtei“).

Il termine “Chotei” indicava un tempio la Corte imperiale dove l’imperatore  governava, ma anche la stanza fisica ove si svolgeva tale compito ed in oggi il tribunale, una sala pubblica ove si tengono le udienze; la parola richiama dunque il concetto di setting tanto caro alla mediazione, ma anche alle discipline psicoterapiche.

La chōtei è il metodo “alternativo” più popolare ed efficace in Giappone: in media, un caso civile su tre va in chotei e c’è una media di risoluzione del 55%.

Si tratta di un procedimento precontenzioso (court-connected mediation) assai economico[21] che si basa su un accordo tra le parti, fondato su concessioni reciproche[22], condotto sotto la direzione di una summary court[23]o  di una district court ovvero dalla sezione famiglia del district court[24].

In materia civile la chōtei è volontaria, tranne che per le locazioni e la famiglia. Viene usata di rado per le controversie commerciali.

Può essere disposta anche dal giudice solo all’inizio del giudizio[25], successivamente abbisogna del consenso delle parti.

Il giudice, sulla richiesta delle parti, nomina una commissione di mediazione[26] con un giudice togato che funge da presidente e due non giudici: sono circa 12.000 dipendenti pubblici a tempo determinato che possono essere riconfermati nel ruolo di mediatore (chōteisha); hanno tra i 40 e i 70 anni e non sono necessariamente giuristi (solo il 10%): sono donne e uomini se nominati dalla Supreme Court (la nostra Cassazione) per una questione di famiglia, più che altro uomini se nominati nel settore civile.

L’esperienza ha dimostrato che perché la chotei funzioni è necessario che i mediatori provengono da svariati ambiti professionali e dai diversi livelli della società.

Nelle fasi iniziali dell’istituto molti mediatori erano scelti tra gli anziani, sostanzialmente maschi, che si distinguevano nella loro comunità.

Questi uomini avevano la tendenza ad insistere sulle regole della comunità e sui valori tradizionali che erano spesso contrari alla legalità, piuttosto che ad aiutare i contendenti ad aprire il negoziato.

A questo inconveniente si è ovviato appunto con la nomina di mediatori provenienti da diverse estrazioni sociali.


[1] Matsuo Bashō (1644-1694).

[2] Art. 1965 del Codice Civile: “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro”.

[3] Confucio è un filosofo cinese che operò tra il 551 ed il 479 a. C. ed i suoi insegnamenti influenzarono la vita cinese, coreana, giapponese e vietnamita.

[4] Y. SATO, Commercial Dispute Processing and Japan, in New York: Kluwer Law International, 2001, p. 330.

[5] G. COSI, Perché conciliare? in dispensa Corso Base e di specializzazione per conciliatori ai sensi del d.lgs. n. 5/03, Associazione Equilibrio & Risoluzione delle controversie, 2010.

[6] Non a caso i samurai seguivano un codice d’onore detto Bushido alla cui base stanno i seguenti principi:

“Gi” la decisione giusta, la risolutezza, la corretta strada da percorrere;

“Rei” il comportamento di gentilezza e cortesia anche verso i propri nemici;

“Yu” l’abilità, sia tecnica sia umana, che si esprime nel coraggio;

“Meido” l’onore e la gloria sul campo di battaglia e nella vita;

“Jin” l’amore universale, la benevolenza verso tutte le persone;

“Makoto” la sincerità totale, in ogni occasione della vita;

“Chu” la devozione e la lealtà verso il proprio padrone e i propri compagni.

Cfr. amplius G. LUCARELLI, Manager, samurai e “l’Arte della spada”. Saggezza antica per problemi moderni. 9 Settembre 2011. In http://www.ticonzero.info/articolo/manager-samurai-e-l-arte-della-spada-saggezza-antica-per-problemi-moderni/2081/

[7] In materia lo scritto più importante in materia di sistemi di composizione dei conflitti in Giappone  risulta ancora oggi il seguente: T. KAWASHIMA, “Dispute Resolution in Contemporary Japan,” in Arthur Taylor von Mehren, ed., Law in Japan: The Legal Order in a Changing Society (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1963).

[8] Il termine è stato coniato da un’antropologa sociale giapponnese di nome Chie Nakane (cfr. C. NAKANE, La società giapponese. “L’estraneità comincia dal fratello”, Traduzione: Francesco Montessoro – Nicoletta Spadavecchia, Raffaello Cortina, 1992. Titolo originale C. NAKANE, Japanese Society, University of California Press, 1970).

[9] K. FUNKEN, Comparative Dispute Management “Court-connected Mediation in Japan and Germany”, (March 2001). University of Queensland School of Law Working Paper No. 867. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=293495 or doi: 10.2139/ssrn.293495.

[10] L’eroe omerico quando non riusciva ad adeguarsi al modello che gli imponeva di “eccellere sempre” attribuiva la responsabilità a forze esterne, alle divinità e così con un transfert evitavano la sensazione psichica. Cfr. E. CANTARELLA, Diritto greco, Cuem, Milano, 1994, p. 25 e. ss

[11] In questo caso si parla di cultura della colpa.

[12] V. G. FINOCCHIARO, in Guida al Diritto, n. 12 del 20 marzo 2010, Il Sole-24Ore,  p. 55. Così erano anche i Romani dell’età arcaica (754 – III sec. A. C.) la cui personalità risultava assorbita nell’ambito della famiglia in cui vivevano (v. A. BURDESE, Manuale di diritto privato romano, UTET, Torino, 1987, p. 11).

[13] L. COZOLINO, Il Cervello Sociale. Neuroscienze delle relazioni umane, Raffaello Cortina Edizioni, 2008, p. 339 e ss. Al contrario, secondo l’autore, l’individualismo radicale occidentale è uno dei motivi per cui abbiamo tanti disturbi psicologici, dipendenza dalla droga e dalla violenza.

[14] E questa è anche una connotazione della nostra mediazione, seppure in misura minore.

[15] Il concetto venne introdotto ivi dagli Occidentali.

[16] Cfr. E. FELDMAN, Law, Culture, and Conflict: Dispute Resolution in Postwar Japan, 13 settembre 2007, p. 54 e ss. in NELLCO Legal Scholarship Repository, University of Pennsylvania Law School.   http://lsr.nellco.org

[17] Cfr. FELDMAN, Law, Culture, and Conflict: Dispute Resolution in Postwar Japan, op. cit. p. 59.

[18] Cfr. FELDMAN, Law, Culture, and Conflict: Dispute Resolution in Postwar Japan, op. cit. p. 72.

[19] The Act on Promotion of Use of Alternative Dispute Resolution (Act No. 151 of 2004).

[20]Lo scopo della legge sulla promozione dell’uso della risoluzione alternativa delle controversie è quello di fornire i concetti di base della legge e in riferimento alle responsabilità del governo e altri soggetti, e ad istituire un sistema di certificazione e di norme speciali in materia annullamento di prescrizione e di altre questioni in modo da rendere le procedure alternative di risoluzione delle controversie più facili da utilizzare, consentendo alle parti di una controversia di scegliere il metodo più adatto per risolvere una disputa con l’obiettivo di un’adeguata attuazione  dei diritti e degli interessi del popolo” (Art. 1).

[21] Nel 2001 costava tra i 1000 e i 6000 yen ossia tra i 9 e i 54, 61 euro

[22] Quindi non tanto sulla soddisfazioni degli interessi come nella mediazione di Harvard.

[23] Una magistratura simile al nostro giudice di pace che ha competenza civile per le piccole cause,  ma ha anche una competenza in materia di diritto di famiglia.

[24] Ossia il nostro tribunale.

[25] In tal caso prescinde dal consenso delle parti.

[26] Che ha tutti i poteri istruttori del nostro giudice civile.

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