Questa nota non ha carattere pedagogico come le favole di Fedro, ma ha una sua morale: chi si loda s’imbroda.
L’autoreferenzialità di cui l’Avvocatura si è fatta forza negli ultimi due anni in merito ad una maggiore capacità di gestione della mediazione civile e commerciale, non trova base perlomeno nella storia della conciliazione degli ultimi tre secoli.
Molti colleghi, al pari del sottoscritto, hanno per la verità cercato di dimostrare le loro attitudini sul campo lavorando con grande serietà e dedizione, ma il loro cammino come quello degli altri professionisti del resto, è stato interrotto dalla Consulta per ragioni meramente formali.
Al prossimo Governo il compito di riparare la strada allo stato distrutta.
La Costituente francese stabilì nel 1790 che gli avvocati non dovessero costituire ordine o corporazione ed indossare un particolare costume durante l’esercizio delle loro funzioni[1].
Ciò comportò unitamente alla legge di riforma dell’ordinamento giudiziario che vi fossero delle ripercussioni anche in conciliazione in tutti i luoghi ove arrivò il vento rivoluzionario, poiché il legale ne venne sostanzialmente escluso.
Soltanto nel 1840 la dottrina protestò contro l’esclusione transalpina con argomenti peraltro di pregio e di grande modernità[2]:”La esclusione delle persone di legge dovea necessariamente impegnare una quantità di parole più o meno ripetute, ma questa misura non ha prodotto alcun bene e spesse fiate essa ha fatto del male. Il litigante che era obbligato a comparire solo non si presentava innanzi di aver consultato il suo uomo di legge, e senza riportare un piano di condotta tutto delineato, con la ferma risoluzione di non dipartirsene: l’uomo di legge sarebbe stato forse più trattabile, egli avrebbe ceduto ad osservazioni che il cliente isolato avea timore fino di ascoltare. E se uno de’ comparenti fosse stato egli stesso uomo di legge, l’altro che non aveva questo vantaggio si trovava ridotto alla dura condizione di lottare senz’armi contro un avversario guernito del più fino acciaio. I processi verbali di non conciliazione contenevano i detti, confessioni e denegazioni delle parti. Altra sorgente di abuso: una risposta mal compresa, mal riportata dal cancelliere della giustizia di pace, diveniva innanzi ai tribunali un testo fecondo d’interpretazioni e di argomentazioni: era questo un vero aguato per coloro che non cadevano in dubbio sul partito che un uomo abile potea trarre da una espressione che un altro semplice avea lasciato scrivere”.
Ma l’esclusione non costituiva una novità nel panorama europeo perché ben prima della presa della Bastiglia, l’avvocato non poteva partecipare ad una conciliazione nei domini pontifici, in Olanda, Prussia e Danimarca.
La situazione dell’avvocatura vide un deciso cambiamento con Napoleone: con una legge del 13 marzo 1804[3], si stabilì che i titoli e le funzioni di avvocato fossero ripristinati a condizione di forte sottomissione al potere esecutivo e sotto l’autorità giudiziaria.
Questa norma, estesa anche alla Liguria, prevedeva anche che a partire dal 1° settembre 1810 sia i giudici sia gli avvocati dovessero possedere un titolo universitario[4].
Fino ad allora dunque non era richiesto alcun titolo di studio per esercitare la professione di avvocato; gli stessi giudici peraltro furono obbligati a laurearsi, nei soli domini sabaudi, negli ultimi anni del secolo XVIII.
In Italia peraltro questo decreto napoleonico non ebbe un grande effetto sull’istruzione dei giuristi anche per la breve durata: gli avvocati e procuratori, in compagnia dei notai e farmacisti, specie nel Sud, continuarono a non possedere la laurea, né la licenza od altro titolo equivalente per buona parte del XIX secolo; solo nel 1874 i legali esercenti da almeno dieci anni vennero pareggiati ai laureati[5].
Nel 1810[6] venne però ripristinato l’ordine degli avvocati (tableau de avocats)[7].
Si stabilì che gli appartenenti all’ordine degli avvocati potessero svolgere funzioni suppletive dei giudici o del commissario di governo[8].
Si introdusse il giuramento degli avvocati e procuratori[9] che abbiamo ancora oggi; si parificarono agli avvocati nelle funzioni i procuratori “licenziati” nell’ambito dei Tribunali a cui “sono attaccati”[10].
Si concesse comunque che anche i procuratori non licenziati potessero patrocinare le cause nel caso di assenza o rifiuto degli avvocati[11].
Ma l’innovazione più interessante ai nostri fini per il territorio italiano riguarda il ruolo degli avvocati e procuratori in conciliazione.
Con decreto di annessione alla Francia della Liguria del 6 giugno 1805[12] l’Imperatore stabilì che in ogni cantone ci fosse un giudice di pace[13] e il 6 di luglio 1805 ridisegnò anche l’ordinamento giudiziario[14].
L’attuale ordinamento giudiziario italiano peraltro è ancora quello stabilito da Napoleone per la Liguria; l’unica modifica significativa da allora riguarda l’abolizione dei procuratori.
L’art. 36 della napoleonica legge ligure sull’ordinamento giudiziario prevedeva dunque che <<A principiare dal giorno dell’installazione dei giudici di pace, niuna domanda sarà fatta ai tribunali di prima istanza, se il difensore non sarà stato previamente chiamato alla conciliazione del Burò di Pace>>.
E così dunque avvenne il recupero dei legali in conciliazione, attraverso un tentativo tecnico voluto dal Bonaparte.
Il difensore diventa per una quindicina d’anni dominus del tentativo obbligatorio di conciliazione. L’udienza di pace comportava adempimenti tecnici sin dall’inizio perché “nell’atto della sua comparsa l’attore potrà spiegare ed anche accrescere la sua dimanda, ed il reo convenuto formare quella che giudicherà convenevole”.
Nei confronti di Napoleone che fu imperatore sino al 1814[15], fatte le debite riflessioni in relazione alla cultura e agli equilibri politici dell’Età, i giuristi hanno dunque comunque un apprezzabile debito di riconoscenza[16].
L’azione imperiale per quanto breve, dovrà essere grandemente stimata specie se si mette a confronto con il regime coevo presente nel Lombardo-Veneto. La legislazione austriaca in Italia del 1803-15[17] stabiliva che le parti dovessero comparire in conciliazione personalmente, ovvero che fossero rappresentate da un uomo di famiglia o da uno probo[18]: erano esclusi gli avvocati ed i faccendieri.
I faccendieri erano in estrema sintesi coloro che si affaccendavano in un affare per sé o per gli altri. La circolare 316 dell’11 gennaio 1825 dell’Imperiale regio tribunale d’appello chiedeva che i faccendieri di mestiere che si fossero introdotti in una conciliazione fossero denunciati all’autorità politica.
L’esclusione degli avvocati dalle conciliazioni[19] durerà sino al 5 maggio 1848 quando il Provvisorio Governo della Lombardia la considererà indecorosa e contraria allo spirito della legge[20].
La Cassazione di Torino farà applicazione della normativa austriaca ancora nel 1870: “(Omissis) La Corte di Cassazione,
Veduta la notificazione dell’I. R. Governo in Milano in data 2 marzo 1824, e gli articoli del Codice di procedura civile nel ricorso invocati;
Atteso che nel paragrafo 5 della notificazione governativa 2 marzo 1824 è detto: “l’esperimento di conciliazione si farà sempre nell’ufficio di pretura e nella giornata destinata; ciascuna delle parti dovrà comparire, di regola, in persona e solamente in caso di impedimento mediante procuratore munito di legale mandato contenente anche la facoltà di transigere. Questo procuratore dovrà essere un individuo della famiglia, un di lei dipendente, od anche un’altra persona proba; non sarà permesso in niun caso e sotto verun pretesto l’intervento di avvocato, meno poi di alcun faccendiere”.
Atteso che il tenore di questa disposizione facilmente persuade che intendimento del legislatore si fu di vietare che in questi preliminari esperimenti di conciliazione le parti si facessero assistere da patrocinatori, e peggio da faccendieri, onde col solo intervento di esse, rei veritate inspecta, riuscisse più facile ed efficace l’opera del pretore di comporre amichevolmente le insorte differenze e contese;
Che questo concetto è viemmeglio dimostrato dal proemio della notificazione istessa, laddove è dichiarato il cui scopo e la considerazione onde mosse il Governo, <<avendo cioè (ivi è detto) l’esperienza dimostrato che le parti vengono spesse volte inviluppate, con grave loro dispendio e perdita di tempo, in litigi sopra controversie, le quali per la minore loro entità e per la loro natura avrebbero potuto essere definite amichevolmente coll’intervento di persona intelligente e disinteressata>>;
Che quindi il divieto ebbe mira, non già la qualità per se stessa di avvocato, sibbene quelle persone le quali per la propria professione consultano ed assistono i litiganti, e possono avere sotto questo rapporto più o meno una peculiare tendenza a complicare e prolungare la controversia: – nessuno di certo vorrebbe sostenere, che fatta l’ipotesi di un avvocato o di un faccendiere, i quali fossero essi medesimi l’una delle parti contendenti, non potessero e non dovessero intervenire personalmente in conciliazione davanti al Pretore (omissis) Torino, 11 febbraio 1870”[21].
Da ciò si evince chiaramente il pregiudizio che si nutriva nei confronti dei legali: che avessero “una peculiare tendenza a prolungare le controversie”.
La parificazione ai faccendieri potrà anche indignarci, ma bisogna anche comprendere che all’epoca il quadro legislativo descritto non consentiva di differenziare facilmente le due figure.
Nel 1848 quando la situazione cambiò nel Lombardo Veneto, perlomeno a livello legislativo, i legali cercarono di recuperare il terreno perduto.
In ciò diede una grossa mano anche il processo di codificazione costituzionale europeo che cercò di cancellare gli ADR e si concentrò sul processo amministrato dai giudici.
Ma c’era da convincere il popolo ed ecco come un legale dell’epoca cercò di operare una distinzione tra legali e faccendieri: ”I faccendieri. Non v’ha forse nell’umano consorzio erba più malefica della genia dei faccendieri, genia che vive attizzando discordie, che cava impuri lucri dall’ignoranza e dalla dabbenaggine del popolo coll’esagerare ai litiganti le loro ragioni, col mettere a partito le loro naturali inclinazione a ritenersi assistiti dal buon diritto; genia che taglia la strada ad ogni amichevole componimento delle controversie, e che succhia al povero il peculio da lui posto in disparte col sudore ed il risparmio di mesi ed anni.
Non è disagevole ravvisare a primo tratto un faccendiere. Dove egli sa essere nata una controversia non tarda a comparire, a circuire una delle parti od anche entrambe, a promettere facile vittoria, a dissuadere dal consigliarsi con un legale.
Il faccendiere si insinua nelle case, attende le sue vittime nelle vie, invade gli anditi e le anticamere dei Tribunali, e penetra perfino nelle aule del giudice. Se tu hai rifiutato una volta l’opera sua, ei ritorna un’altra volta all’assalto con nuove insinuazioni, spargendo nel tuo animo l’incertezza e la paura; finge per te un interesse che nessun motivo giustifica, ti accarezza dapprima colle lusinghe; poi, quando avrà preso su di te un ascendente, si farà tuo tiranno, e sotto cento pretesti ti succhierà sino all’ultimo centesimo. Se lo sorprendi fuori dal campo dell’intrigo, tu trovi il faccendiere che sta sprecando il denaro che ha sottratto alla tua credulità, nel vino e nella crapula. Ecco i tratti principali da cui si può riconoscere un faccendiere.
Una tal genia di persone, per lo più uscite o scacciate dallo studio di qualche avvocato, dove col mestiere d’amanuense poterono acquistare familiarità colla pratica più disgustosa della rotina del foro, deve essere da ogni uomo avveduto fuggito a tutto potere.
Se a taluno pertanto non fu possibile di troncare fin dal suo nascere, e ad ogni costo, mediante transazione, una causa litigiosa, e se trovasi nella dura necessità di proseguire una lite regolare, egli deve guardarsi bene dal cadere nelle mani dei faccendieri, ma deve porre la sua confidenza in un onesto avvocato, ed affidarsi pienamente ai suoi lumi ed alla sua rettitudine, chè, per buona sorte, di galantuomini ve n’hanno in tutti i ceti; e fra noi non mancano avvocati che nell’esercizio della loro professione non perdono mai di vista il pensiero che l’avvocatura è una missione sociale e non soltanto un mestiere.
Né deve credere chi imprende una lite che l’affidare le cose sue ad un avvocato sia per costargli spesa maggiore che non affidandole ad un faccendiere: rifletta invece che quest’ultimo non può agire da solo in giudizio, e che gli è d’uopo ricorrere a qualche cattivo avvocato, non foss’altro, per averne la firma; duplice spesa che ricade tutta sul povero litigante: la mercede del procuratore, ed il salario dell’avvocato, a cui quel primo ebbe ricorso.
Aggiungasi inoltre (considerazione la quale essa persuaderà i contendenti della convenienza di ricorrere all’opera di un onesto avvocato), che della rettitudine di un avvocato, che agisca direttamente a nome del litigante, vi ha una garanzia nella sorveglianza che sopra lui esercitano le magistrature, e nella stessa sua posizione sociale, ch’egli non vorrà arrischiare con un contegno inonesto; quando invece nel faccendiere che agisce nell’ombra, e che moralmente ha nulla da perdere, è facile, e quasi abituale, la corruzione e la prevaricazione. Finalmente, nel caso che un avvocato prevarichi, o pregiudichi per negligenza la parte, questa ha verso di lui diritto al risarcimento, che sempre le mancherebbe verso un altro procuratore di sua libera scelta, il quale per sovrappiù, non ha un obolo sotto il sole”[22].
Al di là della edificante propaganda veniamo ai fatti: i legali ebbero difficoltà a partecipare alle conciliazioni per tutto l’Ottocento; la rappresentanza non era vista di buon occhio e l’assistenza veniva considerata benevolmente dai giudici solo in alcuni casi; in ausilio ai ciechi e sordi, quando la parte non avesse sufficiente pratica degli affari o non sapesse esprimere con chiarezza le proprie ragioni, ovvero si diffidasse dell’astuzia dell’avversario[23].
Di talché l’esclusione dalle udienze dell’avvocato veniva operata discrezionalmente dal giudice.
[1] « Les hommes de loi, ci devant appelés avocats, ne devant former ni ordre ni corporation n’auront aucun costume particulier dans leurs fonctions ». Art. 10 du décret du 2 septembre 1790
[2] Introduzione di Boncenne in T. DESMAZURES, Commentario sul Codice di Procedura Civile, Tomo I, Tipografia di G. Palma, Napoli, 1840, p. 73.
[3] Loi relative aux écoles de droit 22 ventôse an 12. http://www.cercle-du-barreau.org/files/TITRE_IV.pdf
[4] « 23. A dater du 1 er vendémiaire an 17, nul ne pourra être appelé à l’exercice des fonctions du juge, commissaire du Gouvernement ou leurs substituts, dans les tribunaux de cassation, d’appel, criminels ou de première instance, s’il ne représente un diplôme de licencié ou de lettres de licence obtenues dans les universités, comme il est dit aux articles 14 et 15.
24 A compter de la même époque, nul ne pourra exercer les fonctions d’avocat près les tribunaux, et d’avoué près le tribunal de cassation, sans avoir représenté au commissaire du Gouvernement, et fait en registrer, sur ses conclusions, son diplôme de licencié, ou des lettres de licence obtenues dans les universités, comme il est dit en l’article précédent ». Art. 23 e 24 Loi relative aux écoles de droit cit.
[5] Art. 60 l. 8 giugno 1874.
[6] TITRE V. Du tableau des avocats près les tribunaux (Décrets du 14 décembre 1810, du 4 juillet 1811, du 12 juillet 1812, ordonnance du 20 novembre 1822).
[7] « Il sera formé un tableau des avocats exerçant près les tribunaux. » Art. 29 Loi relative aux écoles de droit cit.
[8] <<30. A compter du 1 er vendémiaire an 17, les avocats selon l’ordre du tableau, et, après eux, les avoués selon la date de leur réception, seront appelés, en l’absence des suppléants, à suppléer les juges, les commissaires du Gouvernement et leurs substituts>>.
[9] <<31. Les avocats et avoués seront tenus, à la publication de la présente loi, et, à l’avenir, avant d’entrer en fonctions, de prêter serment de ne rien dire ou publier, comme défenseurs ou conseils, de contraire aux lois, aux règlements, aux bonnes mœurs, à la sûreté de l’Etat et à la paix publique, et de ne jamais s’écarter du respect dû aux tribunaux et aux autorités publiques>>.
[10] « 32. Les avoués qui seront licenciés pourront, devant le tribunal auquel ils sont attachés, et dans les affaires où ils occuperont, plaider et écrire dans toute espèce d’affaires, concurremment et contradictoirement avec les avocats. ».
[11] « En cas d’absence ou refus des avocats de plaider, le tribunal pourra autoriser l’avoué, même non licencié, à plaider la cause ». Art. 32 u.c. Loi relative aux écoles de droit cit.
[12] Nel II titolo art. 7 ed 8.
[13] Il cantone nella Repubblica ligure ricomprendeva più comuni ed ogni comune si identificava per la presenza di una parrocchia (v. L. 1° giugno 1798 n. 111). Con Napoleone ogni circondario di tribunale fu diviso in cantoni e nel capoluogo di ogni cantone doveva esserci appunto un giudice di pace. V. Raccolta delle leggi, ed atti del corpo legislativo della Repubblica ligure dal 17 gennaio 1978, anno primo della ligure libertà, VOLUME I, Franchelli Padre e Figlio, 1798, p. 142 e ss.; v. Bulletin des Lois et Arrêtés publiés dans la 28. division militaire de l’Empire Franςais, tome premier, A l’Imprimerie Impériale, Genés, 1805, pp. 3 e ss.
[14] Decreto di Napoleone del 15 Mietitore anno 13 (15 luglio 1805).
[15] E poi dal 20 marzo al 22 giugno 1815.
[16] Cfr amplius C.A. Calcagno, La mediazione in Francia ed in Liguria, Napoleone e gli avvocati, in Nuova giurisprudenza Ligure n. 2 anno XIV, Maggio Agosto 2012, De Ferrari, p. 54 e ss.
[17] All’impero austriaco era soggetta anche la Lombardia appunto dal 1815; a Venezia invece la legislazione citata peraltro era già, in verità, presente dal 1803.
[18] Munito di mandato legale contenente anche la facoltà di transigere.
[19]Esclusione estesa anche ai procedimenti possessori con Notificazione governativa del 13 ottobre 1825.
[20] V. decreto 5 maggio 1848 in Raccolta dei decreti, avvisi proclami bolettini ecc. del Governo provvisorio dal giorno 18 marzo 1848 in avanti, Giacomo Pirola, Milano, 1848 p. 454.
[21] Cfr. D. GIURATI – F. BETTINI, Giurisprudenza italiana, Raccolta generale e progressiva delle varie Corti del Regno, volume XXII, sentenze del 1870, Unione Tipografica Editrice, Torino, 1871, colonne 153-156.
[22] Il nipote del Vesta-Verde, strenna popolare per l’anno bisestile 1848, Vallardi, Milano, 1848, p. 143-145.
[23] L. SCAMUZZI, Manuale teorico-pratico dei Giudici Conciliatori e dei loro Cancellieri ed Usceri, III ed., E. Rechiedei & C., p. 199.