Relazione nel Convegno “Il cervello in conflitto: le interazioni tra connessioni neurali interpersonali” tenuta in Milano il 28 settembre 2015 da Carlo Alberto Calcagno
Vorrei iniziare con una parola di conforto per i mediatori.
Secondo uno studio dell’Università di Lipsia che è durato ben otto anni[1] e che è stato pubblicato il 29 aprile 2015[2], i professionisti a cui è richiesta nella loro attività una maggiore verbalizzazione, lo sviluppo di strategie, la risoluzione dei conflitti e i compiti manageriali, hanno minor probabilità di sviluppare malattie legate alla memoria nelle ultime fasi della loro vita.
E proprio dalla memoria voglio partire con il mio intervento.
La ricerca scientifica nel campo della memoria ha dimostrato che i ricordi che noi consideriamo comunemente un elemento oggettivo al contrario sono soggetti a cambiamenti nel tempo.
Non è possibile ovviamente affermare che nulla sia accaduto, ma può mutare il significato che gli eventi passati hanno nel presente[3].
E ciò perché la nostra memoria quando rievochiamo un episodio utilizza meccanismi impliciti che non possiamo controllare e meccanismi espliciti.
I meccanismi impliciti sono quelli inconsci o meglio quelli che non sono descrivibili a parole, i meccanismi espliciti sono invece quelli coscienti (ossia quelli che affiorano quando ci rendiamo conto che stiamo ricordando)[4].
La strutturazione del ricordo dipende in altre parole da come si integrano le nostre strutture cerebrali nel momento in cui lo riportiamo alla coscienza: la memoria in sintesi non è altro che un percorso neuronale che viene fatto e rifatto, ma che può appunto modificarsi, dato che le nostre sinapsi che danno modo ai neuroni di comunicare, mutano da momento in momento.
E siccome quel che conta è il feedback, nel senso che sono determinanti i recettori delle sostanze chimiche che veicolano le informazioni nel nostro cervello, la stessa sostanza può essere in un caso eccitatoria, nell’altro inibitoria. Anche questo influisce sul mutamento del ricordo, come su qualsivoglia altro stato mentale.
Lo stesso del resto, come ben sappiamo, avviene nei rapporti interpersonali: non conta tanto quel che diciamo, ma come quel che diciamo viene percepito dagli altri.
I terapeuti o gli esperti di programmazione neurolinguistica, ben consapevoli delle modifiche cerebrali, utilizzano nel loro campo una metodica che si definisce linea del tempo (time line)[5], strumento che a fini non terapeutici rientra anche nell’armamentario del mediatore.
In terapia[6] l’idea è che se si aiuta il paziente a ristrutturare il proprio ricordo in maniera positiva ci saranno benefici per il suo futuro.
Ciò si può realizzare aiutando a ristabilire un equilibrio tra i momenti della giornata in cui si vive nel passato, nel presente e nel futuro; voglio intendere che ci sono persone che se interrogate su come “vedono” nella loro mente una determinata attività (ad es. fare la colazione al mattino) osservano che quella passata è sempre davanti a loro, quella futura si pone nel retro del cervello e la presente magari non riescono nemmeno a visualizzarla perché coincide col passato.
Naturalmente il mediatore non fa terapia, lo diciamo subito a scanso di equivoci, ma la linea del tempo può essere utilizzata proficuamente anche in mediazione per far intravedere a colui che è coinvolto in un conflitto interpersonale una via d’uscita.
Il meccanismo è semplice: si traccia una linea con un gesso sul pavimento oppure si stende un paio di metri di spago, ovviamente in sessione separata (ossia con una parte sola).
La linea rappresenta la strutturazione del tempo che è un’attività fondamentale della nostra vita a cui nessuno può sottrarsi: illuminanti al proposito sono gli studi di Eric Berne a cui per ragioni evidenti vi rimando[7].
Tracciata dunque la linea sul pavimento si spiega al soggetto che quella è una linea del tempo alle cui estremità stanno il passato ed il futuro ed al centro il presente.
Si chiede poi alla persona di posizionarsi alla estremità che costituisce il passato (così iniziamo a dare un certo ordine alle cose) e gli si fanno domande su quello che è stato inizialmente il rapporto con l’altra parte del conflitto: è probabile che ci risponda con ricordi positivi (per consonanza cognitiva), ma anche con rievocazioni negative.
Poi chiediamo al soggetto di posizionarsi al centro della linea o dello spago e gli ribadiamo che rappresenta il presente e poniamo domande su quello che è il rapporto in oggi: le risposte come è abbastanza ovvio intendere ci porteranno un quadro negativo perché la persona è coinvolta in un conflitto che limita la capacità di negoziare e che la indebolisce.
Infine si chiede alla persona di mettersi all’estremità che denominiamo futuro e gli chiediamo come si sentirà se nel futuro (ad esempio tra cinque anni) il suo conflitto non sarà risolto.
È abbastanza facile intuire che se il passato è stato positivo ed il presente negativo il soggetto tenderà a desiderare di “tornare nel futuro” ad una situazione positiva, ma a maggior ragione è naturale cercare una via di fuga quando il passato ed il presente sono stati rappresentati come negativi.
Questo diverso posizionamento delle persone sulla linea del tempo che potrebbe inizialmente essere portatore di qualche piccola diffidenza, in realtà è cosa naturale per la nostra mente: chi si presta a questo metodo in effetti alla fine rimane esterrefatto per la sua efficacia.
In mediazione questo strumento è utile quando la migliore alternativa all’accordo negoziale sembra alla persona (ed oggi anche al suo avvocato) molto forte, quando cioè il processo civile viene rappresentato come una soluzione impermeabile alle verifiche sostanziali del mediatore; ebbene anche la più forte delle alternative all’accordo facilmente può sgretolarsi di fronte al decorso del tempo, anche se soltanto immaginato.
Questo metodo però potrebbe essere anche utile per gli avvocati o per altri professionisti quando il cliente non vuol sentire ragioni e rompersi la testa in un giudizio, a meno che non ci si trovi in presenza di uno zoccolo duro, mi riferisco al caso del conflitto invischiato[8].
Il conflitto invischiato appartiene alle persone che ce l’hanno col mondo e a cui non interessa risolvere il conflitto. Ciò perché un rapporto conflittuale è meglio che un’assenza di rapporto (Berne al proposito ci parla di carezze negative che sono meglio dell’assenza di carezze).
I portatori di conflitto invischiato sono quelli che arrivano in mediazione o dall’avvocato con una pila di antecedenti, magari sentenze scaricate da internet, e che spiegano all’avvocato o al mediatore come risolvere il loro problema.
Alla base di questo comportamento c’è la necessità di essere presi in considerazione.
Dal momento che queste persone non vogliono effettivamente risolvere il conflitto la mediazione o la collaborazione, magari in una negoziazione assistita, è alquanto complicata.
Abbiamo prima sottolineato che la strutturazione del ricordo dipende da elementi impliciti ed espliciti; quelli impliciti non possono essere ignorati da qualsivoglia professionista, tanto meno da un avvocato.
Daniel J. Siegel[9] ci racconta una seduta di terapia in un suo recente libro[10].
Una donna di 35 anni incominciò a raccontare al terapeuta la storia della sua esperienza con il padre, un uomo violento e dedito all’alcol. Quasi subito si mise a piangere e iniziarono a tremarle le mani; si voltò, smise di parlare e per un po’ rimase congelata con un’espressione di terrore sul viso. Riprese poi il racconto, mettendosi però a descrivere le caratteristiche positive e le “qualità” del padre; si asciugò le lacrime, cercando di “ricomporsi”.
In questa seduta la signora è stata travolta da memorie implicite, evocate dal tentativo di raccontare le ire e le scenate del padre.
Eventi simili si verificano davanti a qualsiasi professionista ed in particolare non sono rari in mediazione ove si trovano spesso persone che comunicano solo col linguaggio del corpo o impiegando un particolare tono di voce, persone che sembrano apparentemente statue di sale, che fanno smorfie dolorose e incomprensibili per chi non è toccato dalla loro esperienza, ad esempio a fronte della richiesta di una separazione o di un divorzio.
Il professionista che si basasse per le sue valutazioni soltanto sul linguaggio verbale non ricaverebbe un ragno da un buco, non potrebbe mai rendersi conto di che cosa queste persone ricordano, provano e desiderano.
E dunque se si vuole avere un quadro chiaro vanno approfonditi gli studi sul paraverbale (tono di voce) e sugli atti di scarico tensionale ossia sul linguaggio del nostro corpo attraverso cui comunichiamo ciò che a parole non può essere comunicato.
L’esplicitazione dei meccanismi inconsci attraverso il linguaggio del corpo od il paraverbale è di gran lunga al centro di qualsiasi interazione tra le persone.
Il verbale, ossia ciò che sorge a seguito di una ricostruzione consapevole, costituisce di media secondo alcuni studi arcinoti, soltanto il 7% di una interazione ed è addirittura equiparabile al silenzio. In altre parole ci dice solo il 7% di quello che il nostro interlocutore può provare.
In relazione alla totalità della comunicazione che un essere umano può esprimere si tratta di una percentuale poco rilevante; personalmente me ne sono reso conto con l’esperienza di mediazione; piano piano ho ridotto sempre più i miei interventi verbali, perché ho compreso che l’ascolto silenzioso costituisce una potentissima forma di comunicazione.
Scriveva nel 1908 Poincaré il fisico, matematico e filosofo, papà del principio della relatività: “Il sé subliminale non è in alcun modo inferiore a quello cosciente; esso non è puramente automatico, è capace di discernimento, ha tatto, delicatezza, sa come scegliere, come scoprire. Ma cosa dico? Sa scoprire meglio del sé cosciente, poiché ha successo dove quest’ultimo ha fallito. In una parola, il sé subliminale non è forse superiore a quello cosciente?”
In altre parole il linguaggio del corpo e il tono della voce che sono segnali dell’inconscio sono determinanti per la nostra vita.
Nel 1922 Sigmund Freud[11] precisava che l’Io sta su sull’Es come il disco germinativo sta sull’uovo.
Sapete che cosa è il disco germinativo dell’uovo? Quel filamento trasparente che se si strappa il rosso dell’uovo si sfalda.
L’io che detto maldestramente rappresenta la parte verbale e verbalizzante dell’interazione è dunque solo un filamento trasparente di pochi millimetri.
Un famoso psicologo, Princeton Julian Janes, affermava del resto in linea con Freud che “la coscienza e una parte piuttosto minuscola della nostra vita mentale: della quale noi siamo coscienti, perché non possiamo essere coscienti di ciò di cui non siamo coscienti”[12].
Le evidenze scientifiche dimostrano che una grande quantità di operazioni cognitive, che vanno dalla percezione del mondo esterno alla comprensione del linguaggio, dalla decisione all’azione e dalla valutazione alla inibizione, può svolgersi, almeno parzialmente, in maniera subliminale, ossia senza che ne abbiamo alcuna consapevolezza.
Il fatto che tutte queste operazioni si possano muovere al di fuori dal nostro controllo cosciente non ci deve però turbare: negli ultimi anni è stato dimostrato ampiamente quanto sosteneva Poincaré e cioè che se cerchiamo di risolvere un problema senza pensarci su coscientemente abbiamo maggiori probabilità di trovare quella che è la soluzione ottimale.
Cito solo un esperimento. Uno psicologo olandese (Ap DiJksterhuis) ha presentato ai suoi studenti il seguente problema: dovevano scegliere tra quattro marche di auto, che differivano sino a 12 caratteristiche. I partecipanti leggevano il problema, quindi a una metà di loro era consentito di pensare consciamente per quattro minuti alla loro possibile scelta; l’altra metà invece, era distratta (mediante la risoluzione di anagrammi) per la stessa quantità di tempo. Alla fine, entrambi i gruppi compivano la loro scelta. Sorprendentemente, il gruppo che era stato distratto sceglieva le auto migliori molto più spesso del gruppo la cui scelta era stata cosciente (60 per cento contro 22 per cento; si tratta di un effetto eccezionalmente rilevante, dato che scegliere a caso avrebbe portato al 25 per cento di successo).
Il lavoro è stato replicato in numerose situazioni tratte dalla vita reale, come comprare all’IKEA: parecchie settimane dopo un viaggio laggiù, gli acquirenti che avevano riferito di essersi sforzati di più in maniera cosciente nel prendere la loro decisione erano meno soddisfatti dei loro acquisti rispetto a quelli che avevano scelto impulsivamente, senza molta riflessione cosciente[13].
Vi ho riportato i dati di questo esperimento perché comunemente noi professionisti abbiamo la pretesa di volere controllare tutto e la convinzione di poter controllare tutto, convinzione che, come scrive uno scienziato danese[14], è solo un’illusione, anzi viene definita come l’illusione dell’utilizzatore.
Tanto vale confidare anche in una notte ristorativa (che la notte “porta consiglio” è stato peraltro dimostrato scientificamente), dare giusto ascolto appunto a quello che chiamiamo intuito, a quella che noi definiamo soggettività, ma che in realtà è qualcosa di più e di più complesso.
Per dirla con le parole efficaci di Steve Jobs: “E, cosa più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e il vostro intuito. Loro sanno già quello che voi volete diventare. Tutto il resto è secondario”.
Senza per questo arrivare a pensarla come il Vialatte[15], ossia che la coscienza, come l’appendice, non serve a niente, ma ci fa star male.
La pretesa di voler controllare tutto e l’illusione di poter controllare tutto con un minuscolo disco germinativo, non può che portare a conseguenze deleterie per il nostro organismo, perché non rispetta la natura, come siamo stati congegnati.
Anche il mediatore non può pensare di poter controllare tutto, di fare domande sino allo sfinimento; non dovrebbe preoccuparsi di pensare a ciò che bisogna chiedere quando è più che sufficiente ascoltare.
Lo stesso vale certamente per il professionista che è invece costantemente attanagliato dall’ossessione di dare risposte.
Come dicevo, la reciproca comunicazione del corpo può portare a delle soluzioni impreviste ed imprevedibili ed il silenzio “attivo” spesso in mediazione come nella consulenza, come nella vita, è certamente d’oro.
Bastano in effetti al nostro inconscio pochi secondi di un approccio relazionale, per avere un’esatta rappresentazione del nostro interlocutore e dunque non sarebbe un errore quello di concentrarsi sulle sensazioni anche interne che il corpo ci invia. E se ciò comporta avere per il mediatore una sensazione di imparzialità bisognerebbe prendersi una pausa per valutarne le ragioni.
Questa considerazione sulla pausa in mediazione ci introduce al senso della coscienza: molti scienziati si sono chiesti a che serva la coscienza.
In base ai loro studi e alla nostra esperienza possiamo affermare che la coscienza è utile.
È una caratteristica umana estremamente efficace che è arrivata a un grado estremo di sofisticazione dopo milioni di anni di selezione.
A livello inconscio che cosa facciamo? Calcoliamo la probabilità che colori, forme, animali o persone siano presenti intorno a noi.
La migliore interpretazione (la più verosimile) di ciò che ci circonda, un campione, tra i migliaia del mondo che abbiamo intorno, arriva poi alla coscienza perché decida dato che noi dobbiamo interagire col quel mondo.
Henry Moore, scultore e artista inglese, riassumeva bene già nel 1937 il senso della coscienza per un artista[16]: “Anche se la parte della mente non logica, istintiva, subconscia deve giocare il suo ruolo nel lavoro (dell’artista), egli ha anche una mente cosciente che non rimane inattiva. L’artista lavora concentrando l’intera sua personalità, e la parte cosciente di essa risolve i conflitti, organizza i ricordi e gli evita di provare ad avanzare in due direzioni diverse nello stesso momento”.
Se non avessimo la coscienza saremmo dunque come l’asino di Buridano che non sapendosi decidere tra due mangiatoie che contenevano fieno ed acqua morì di stenti.
Semmai il problema è di capire da dove viene l’esperienza soggettiva (MERCIAI).
Sareste in grado di calcolare 12 x 13 inconsciamente?
No. Nessuno di voi lo potrebbe.
Per arrivare a 156 occorre conservare nella memoria di lavoro (ossia corteccia prefrontrale e dorsolaterale) i passaggi della moltiplicazione.
Il segnale subliminale (inconscio) non si ferma che un decimo di secondo nel nostro cervello e dunque non ci può dare la possibilità di conservare i passaggi intermedi per arrivare al risultato.
In effetti l’informazione non cosciente rimane confinata ad un angusto circuito cerebrale (ovvero nella parte posteriore del cervello), quella percepita coscientemente viene distribuita globalmente su gran parte della corteccia e per un tempo prolungato.
Più in dettaglio in stato di veglia si alternano tre tipi di onde cerebrali: alfa, beta e gamma; la percezione cosciente ad esempio di una parola detta od ascoltata incide sulle gamma, ossia sulle onde ad alta frequenza amplificandole (P3).
L’eccitazione dei neuroni in fase cosciente è poi sincronica: con la sincronia si trasmette l’informazione e si permette di stabilire quella che chiamiamo rete cerebrale.
In altre parole non si può parlare di rete cerebrale se rimaniamo ad un livello inconscio: l’impulso subliminale è come un’onda che ci lambisce i piedi, l’onda cosciente che arriva quando pronunciamo una parola o prendiamo consapevolezza di un stimolo esterno invece travolge l’intero cervello.
Abbiamo detto che la coscienza (ossia fare rete cerebrale) è necessaria per interagire col mondo. Possiamo essere anche più precisi. La coscienza consente di compiere una strategia; ciò non è dato invece all’inconscio, almeno allo stato delle attuali conoscenze.
Una strategia per fare che?
Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo, solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: “l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda, non ne avrebbe avuto bisogno” afferma Nietzsche[17].
Senza contare che noi siamo sempre terzi anche con noi stessi.
In altre parole quando pensiamo a noi stessi e parliamo agli altri si attivano gli stessi circuiti cerebrali.
Da ciò discende che per il nostro cervello il nostro sé è terzo.
Siamo stati costruiti per comunicare con gli altri o con l’altro… diversamente la coscienza per noi sarebbe inutile, come dice appunto il filosofo.
La scienza usa al proposito un termine per indicare un processo: consilienza[18].
La mente che emerge dalla sostanza del cervello è plasmata dalle comunicazioni che si stabiliscono all’interno delle nostre relazioni interpersonali.
In sostanza le connessioni umane plasmano quelle neuronali e insieme formano qualcosa che è più della somma dei due fattori.
I nostri sé individuali dipendono allora da altre persone, dunque anche la rappresentazione della realtà che ognuno si fa dipende da quella altrui.
Le cellule cerebrali sono addirittura specializzate.
Che cosa vuol dire?
Che milioni di cellule sono specializzate per una data questione, per determinate persone, per un determinato oggetto.
Non esiste una percezione cosciente generalistica.
Ciò ha degli indubbi riflessi anche sulla composizione dei nostri interessi: ci sono provvedimenti giudiziari che ci dicono che l’attività di mediazione ha carattere personalissimo[19]. Da qualche mese la giurisprudenza anche del foro milanese e di quelli limitrofi (Pavia e Monza) è granitica sul richiedere la presenza personale delle parti[20].
C’è chi afferma in particolare da ultimo che il legale può avere in mediazione solo la funzione di assistenza e non quella di rappresentanza.
Il ragionamento è confortato dalle evidenze scientifiche sopra citate.
Perché l’attività di mediazione richiede una presenza personale di coloro che sono coinvolti da una questione? Attraverso un gruppo di cellule io mi rappresento Tizio con cui confliggo e la questione che ho con lui, ma se in mediazione viene Caio quelle cellule dedicate a rappresentarmi Tizio e la nostra questione non si accendono.
Gli scienziati ormai riescono a misurare anche un singolo spike di una cellula (lo spike è l’unità di misura dell’impulso elettrico che i neuroni si scambiano) ed hanno verificato che appunto la cellula si attiva con lo spike solo in presenza di uno stimolo determinato (ad es. la vista del papà o della mamma, l’ascolto della voce della propria compagna, la vista della persona con cui appunto si confligge ecc.).
E’ così che noi facciamo esperienza del mondo.
Se dunque io Tizio ho un conflitto in corso con Caio e do mandato all’avvocato Sempronio di recarsi in mediazione al mio posto ci sarà inevitabilmente un’altra percezione cosciente di Caio che non ci aiuterà a sopire il conflitto ed a risolvere la controversia.
Un ultimo tema. Perché il modellamento cerebrale da parte degli eventi esterni sia armonioso è necessario che a loro volta i neuroni si integrino tra di loro e vi sia un controllo dell’attività cerebrale.
In presenza di emozioni pesanti e di forte stress questa integrazione e controllo può non attivarsi e la conseguenza è che il cervello compie degli errori.
Le regioni prefrontali mediali (in particolare ha rilievo quella sinistra) sono quelle che gestiscono l’autoconsapevolezza, l’empatia, la memoria, la regolazione delle emozioni e l’attaccamento.
Se si integrano con le regioni inferiori (ossia con le regioni sottocorticali[21] e con quello che viene grossolanamente chiamato cervello medio ossia il sistema limbico) riescono a regolare bene il tutto.
Molti disturbi mentali ad esempio dipendono dalla non integrazione.
Per cercare di spiegarmi meglio posso dire che secondo una teoria di Paul D. MacLean[22] elaborata tra gli anni ’70 e gli anni ’90, a livello cerebrale noi siamo allo stesso tempo rettili, insetti e mammiferi.
Il nostro encefalo si può rappresentare come l’unione e l’integrazione di tre strati sovrapposti[23]:
1- il cervello vecchio o automatico che presiede alla regolazione delle funzioni fisiologiche di base (battito cardiaco, respirazione, ecc..) e che abbiamo in comune con i rettili (da qui la definizione “cervello rettiliano” o R-complex)[24];
2- il cervello medio o emozionale (o cervello paleomammaliano o sistema limbico) che governa le reazioni emotive e istintive e che ci deriva dai primi mammiferi insettivori[25];
3- il cervello nuovo o razionale (Neocortex) localizzato essenzialmente nella corteccia, che copre le rimanenti masse cerebrali come un mantello ricco di scissure e circonvoluzioni, e costituisce una formazione tipica dei mammiferi superiori (deriverebbe dai primari bulbi olfattivi).
Teniamo presente che le porzioni di cervello sopra descritte hanno punti di vista differente e si comportano in maniera diversa a seconda delle circostanze ed una non integrazione, un mancato controllo può causare qualche problema anche nella vita di tutti giorni, dato che spesso quel che vuole il cervello “non evoluto” non coincide con quello che desidera la corteccia cerebrale.
Mentre nei rettili e negli insetti il cervello ha subito una evoluzione, in noi questo non è accaduto.
I cervelli hanno problemi di comunicazione tra loro perché l’evoluzione ha accordato il pensiero e il linguaggio al Neocortex[26], ma ha mantenuto la cosiddetta regola del blocco: in altre parole il nostro cervello “meno evoluto” ci fa avvicinare a ciò che ci favorisce, ma fa sì che evitiamo ciò che viene considerato pericoloso.
Una delle funzioni più importanti per noi è quella di gestire la paura e l’ansia.
Il cervello “meno evoluto” davanti alla paura ci blocca, fa sì che tratteniamo il respiro, restiamo immobili e il linguaggio viene inibito; di fronte all’ansia sta permanentemente in stato di allarme e non ci consente di rilassarci.
Nella corteccia frontale dell’emisfero sinistro abbiamo un’area detta di Broca che produce il linguaggio e registra gli eventi traumatici.
La regola del blocco fa sì che il trauma comporti una limitazione di questa area voluta appunto dal cervello inferiore; ciò ci impedisce di fare una narrativa coerente di quel che è accaduto e quindi non riusciamo ad integrare la rete neurale.
Ci sono poi ricordi dell’infanzia che sono irrilevanti o addirittura distruttivi e che stanno alla base di molte difficoltà psicologiche e anche ciò è voluto dall’evoluzione; essi ritornano dalle aree sottocorticali e quindi dal cervello emozionale quando siamo più vulnerabili (stress, nuovo lavoro, trasloco ecc.).
Ciò accade perché in questo stato di vulnerabilità il nostro cervello perde appunto la capacità di integrare le reti neurali preposte al comportamento, alle emozioni, alle sensazioni e alla consapevolezza cosciente.
Questi ricordi infantili si insinuano in ricordi traumatici più recenti proprio perché la parte organizzativa delle percezioni, della conoscenza e della previsione (del new brain) viene disinnescata.
Tutto ciò può comportare in noi appunto l’insorgere di una psicopatologia e comunque di un malessere.
Siegel ci spiega tutto quello che abbiamo detto sopra, in un modo molto semplice, nel suo “modello portatile del cervello”[27].
Quando i meccanismi mentali si integrano allo stesso tempo si integrano come per incanto le esperienze relazionali, dato che non siamo preda di emozioni che disattivano le nostre funzioni corticali superiori.
Subentra quella che noi conosciamo come empatia e quindi il rispetto delle differenze. L’empatia non è in fondo che il rispetto e l’accettazione delle differenze.
[1] Autore: Francisca S. Allora, PhD.
[2] http://www.healthcanal.com/brain-nerves/63004-challenging-work-tasks-may-have-an-upside-for-the-brain.html
[3] Steve Bavister – Amanda Vickers, PNL essenziale, NLP Italy, p. 162-253 e ss.
[4] Daniel J. Siegel, La mente relazionale, Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, seconda edizione, RaffelloCortinaEditore, 2014 p. 68.
[5] Esattamente si definisce in PNL Time line il modo con cui codifichiamo mentalmente immagini, suoni, sensazioni, gusti e odori degli eventi nel passato, presente e futuro. Cfr. Steve Bavister – Amanda Vickers, PNL essenziale, NLP Italy, p. 263.
[6] Tad James e Wyatt Woodsmall hanno concepito negli anni ‘80 la Time Line Therapy che utilizzano per lavorare sulle emozioni negative: rabbia, tristezza, senso di colpa e paura. Con la PNL più in generale si possono curare le fobie, i traumi infantili e cambiare la abitudini di vita e può bastare spesso una singola seduta per ottenere grandi risultati. Può essere combinata utilmente con l’ipnosi.
[7] Eric Berne immagina sei possibilità di strutturazione del tempo: 1)isolamento, 2) rituali, 3) passatempi, 4) attività, 5) giochi, ed in ultimo l’intimità. Cfr. Ian Stewart – Vann Joines, L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, p. 119 e ss.
[8] In psicoanalisi sono quelli che hanno una reazione terapeutica negativa: non sopportano alcuna lode e apprezzamento, ma reagiscono ai progressi della cura in modo rovesciato. In queste persone non ha il sopravvento la volontà di guarire, ma il bisogno della malattia. Hanno un senso di colpa che trova soddisfacimento nell’essere malato, non vogliono rinunciare alla punizione della sofferenza.
[9] Daniel Siegel, autore di fama internazionale, insegna psichiatria presso la facoltà di Medicina della University of California di Los Angeles (UCLA), dove è inoltre condirettore del Mindful Awareness Research Center e direttore esecutivo del Mindsight Institute.
[10] Daniel J. Siegel, La mente relazionale, Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, seconda edizione, RaffelloCortinaEditore, 2014 p. 68-69.
[11] “Sforzandoci di fornirne una rappresentazione grafica, aggiungeremo che l’Io non avviluppa interamente l’Es, ma solo quel tanto che basta a far sì che il sitema P formi la sua superficie (dell’Io), e ciò più o meno come il disco germinale poggia sull’uovo”. Sigmund Freud, L’IO E L’ES, Biblioteca Bollati Boringhieri, 1976, p. 37.
[12] Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, RaffaelloCortinaEditore, 2014, p. 116.
[13] Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, RaffaelloCortinaEditore, 2014, p. 119-120.
[14] Tor Norretranders.
[15] Alexander Vialatte è uno scrittore francese morto nel 1971.
[16] The sculptor speaks (1937).
[17] Fredrich Nietzsche, La gaia scienza.
[18] Wilson 1998, Collard 2011.
[19] Tribunale Vasto 9 marzo 2015.
[20] Cfr. da ultimo Tribunale Pavia, 14 settembre 2015, Tribunale Milano 1° luglio 2015, Trib. Monza 20.10.2014.
[21] Insula e corteccia cingolata.
[22] Medico statunitense specializzato nelle neuroscienze, che diede importanti contributi nel campo della psichiatria (1913-2007). La teoria qui esposta risale al 1973.
[23] L’attività del cervello neomammaliano è mutualmente influenzata dal sistema limbico e dall’R-complex: “dovrebbe essere enfatizzato il fatto che i tre tipi di cervello non sono in alcun senso separati, entità autonome, anche se sono capaci di funzionare in qualche modo indipendentemente” (MacLean 1973b, p. 114).
[24] “Si pensa che il cervello rettiliano rappresenti il centro fondamentale del sistema nervoso, essendo costituito dalla parte superiore del midollo spinale, da parti del mesencefalo, dal diencefalo e dai gangli della base” [ovvero dall’olfattostriato (tubercoli olfattori e nucleo accumbens) e da strutture definite come appartenenti al corpo striato (nucleo caudato, putamen, globo pallido e sostanza grigia associata) (MacLean 1985a, p. 220)].
Secondo MacLean (1973a, trad. it. 1984, p. 7) “il cervello di tipo rettiliano che si trova nei mammiferi è fondamentale per le forme di comportamento stabilite geneticamente, quali scegliere il luogo dove abitare, prendere possesso del territorio, impegnarsi in vari tipi di parata [comportamenti dimostrativi], cacciare, ritornare alla propria dimora, accoppiarsi, [procreare], subire l’imprinting, formare gerarchie sociali e scegliere i capi”.
[25] Comprende i bulbi olfattivi, il setto, il fornice, l’ippocampo, l’amigdala (in parte; la rimanente è ‘striata’, cioè rettiliana), il giro del cingolo, e i corpi mammillari.
“Il cervello paleomammaliano, o sistema limbico, rappresenta un progresso dell’evoluzione del sistema nervoso perché è un dispositivo che procura agli animali che ne dispongono mezzi migliori per affrontare l’ambiente. Parti di esso concernono attività primarie correlate col nutrimento ed il sesso; altre con le emozioni e i sentimenti; ed altre ancora collegano i messaggi provenienti dal mondo esterno con quelli endogeni. La comparsa esplosiva delle attività tipiche del Sistema Limbico, ad es. a causa di epilessia [temporale], può scatenare un insieme di esperienze e sensazioni, alcune delle quali molto interessanti essendo associate con la convinzione della scoperta di verità fondamentali, senso di spersonalizzazione e stranezza, ed allucinazioni (MacLean, 1970)“
[26] La capacità di affrontare le situazioni nuove o inaspettate e pure quella di prevedere il futuro.