Le antiche leggi municipali di Milano pubblicate nel 1215[1] prevedevano sotto la rubrica “dei duelli”, il modo con cui si procedeva definire alcune liti.
Questo sistema di composizione dei conflitti che arrivò nel nostro paese coi Longobardi, venne proibito a Milano da Luchino Visconti perché le famiglie milanesi stavano quotidianamente in guerra tra di loro: siamo però tra il 1339 ed il 1349[2] e dunque quasi alle porte dell’Umanesimo.
Ma va subito detto che ogni proibizione fu vana e non solo in Milano: la Chiesa arriverà pure a intimare per i duellanti la scomunica o la sepoltura in terra sconsacrata; il tutto senza esito.
Dal XV secolo si passò semplicemente dal duello giudiziario a quello d’onore.
Nella scienza cavalleresca campeggiava questa massima: “Bisogna lavar l’ingiuria con il sangue, perché l’onore è il supremo bene dell’uomo”.
Allora nel 1560 in Francia nacquero i Tribunali dell’onore che erano degli arbitri che giudicavano su una sola questione: se l’onore fosse stato leso o meno; il tutto nella illusoria credenza che ciò avrebbe diminuito i duelli.
Ma ancora nell’Ottocento il duello era ben vivo, specie in Francia.
Non faceva più parte delle leggi civili, ma si celebrava privatamente e comunque rimaneva simbolicamente anche nelle cerimonie. In Inghilterra in occasione dell’incoronazione regia e durante il banchetto reale, un campione entrava a cavallo nella abbazia di Westminster; dichiarava che era pronto a sostenere con le armi che il Re incoronato era l’unico re legittimo di Inghilterra e poi gettava il guanto per sfidare chiunque affermasse il contrario.
Nella Milano del Duecento dunque il duello era frequente: si faceva o personalmente, o per mezzo di un campione, o per mezzo di uno che combattesse per la prima volta: la scelta dipendeva dall’arbitrio del convenuto.
Se il convenuto voleva combattere di persona, il giudice gli assegnava un competitore eguale.
Se poi il reo si sceglieva un campione, l’attore poteva fare altrettanto, ed era tutto lasciato alla libera loro volontà, il che pure accadeva se il combattimento doveva aver luogo fra persone che si battessero per la prima volta.
Giunto il giorno stabilito dal Console, i combattenti sentivano la Messa, e deposte le armi presso l’altare ricevevano la benedizione dal sacerdote; dopo di che le armi venivano sigillate.
E qui i legislatori distinguono le solennità che si praticavano prima della Pace di Costanza da quelle che era in uso ai loro tempi.
Prima di quella pace dunque nella pubblica strada, coll’assistenza di un Console e di un Messo Regio, sedevano il giudice e gli avvocati di tutte due le parti.
L’avvocato dell’attore cominciava ad interrogare il Regio Messo e chiedeva se confessasse di sedersi per ascoltare le domande introduttive (appellazioni) e dopo la confessione di questo ultimo, passava a interrogare il giudice per capire se intendesse sedere per decidere quella causa con il duello; ed il giudice rispondeva: “Io lo confesso”.
Allora l’avvocato stesso con il consenso del suo cliente porgeva cosi la domanda: “lo dico, e il mio Cliente lo dirà a suo tempo, che egli sospetta che il tale é il ladro …”, e l’asserzione confermava col giuramento: l’avvocato del convenuto rispondeva e giurava il contrario.
All’epoca dunque si potrebbe affermare che gli avvocati spergiuri fossero all’ordine del giorno.
Allora il Giudice, coll’autorità del Regio Messo, dichiarava che si dovesse passare a duello; e le parti si davano reciproca garanzia scambiandosi i bastoni, con i quali ci si doveva battere.
Seguiva poi il giuramento di coloro che dovevano combattere, che pure affermavano ciò che aveva detto il loro avvocato, ma aggiungevano pure che venivano a battaglia senza aver assunto pozioni (in forza di erbe) o dopo aver compiuto malefici.
Scesi allora entrambi nel campo di battaglia il giudice porgeva personalmente ad essi lo scudo ed il bastone e seguiva il combattimento.
Ma dopo la pace di Costanza gran parte di queste solennità erano andate in disuso per la piena giurisdizione accordata da Federico Barbarossa alla città.
II Console decretava, disponeva ed ordinava il Duello senza alcun bisogno del Messo regio; e questo non si faceva nella via pubblica, ma nello stesso Consolato ove veniva emessa la sentenza, e senza tante formalità.
I due campioni combattevano sempre con lo scudo sopra il capo e col bastone; se pure le parti non convenivano altrimenti.
Si concedeva ad essi di avere anche una coperta di feltro sopra la schiena e sopra una gamba.
Se chi combatteva lo faceva per la prima volta o se fosse stato un contadino poteva accadere che la battaglia venisse condotta con uno scudo e con una cesta: tutto ciò dipendeva dall’arbitrio del giudice.
Il duello poi non era prescritto che per il furto di rilevante valore, per l’incendio e per il guasto: per esempio se taluno venisse accusato di aver troncato le viti, scorticati gli alberi, ecc.; ma anche per un omicidio fatto proditoriamente si concedeva di combattere: non era invece permesso il duello fra due testimoni contrari, né per uno spergiuro, come invece concedeva la legge dei Longobardi.
E ciò malgrado che si continuasse in Milano a lasciar libertà di vivere o secondo la legge longobarda o secondo quelle romane, quando non si preferissero le leggi municipali.
Pochi seguivano ancora la legge dei Longobardi e nessuno professava più la legge romana, se non qualche straniero: tutti gli altri vivevano con le consuetudini municipali.
Se le consuetudini non fossero state bastanti, i giudici , non si regolavano più con la legge dei Longobardi, ma si attenevano alle leggi romane che dunque avevano funzione integrativa.
Oltre al duello poi, erano anticamente in uso alcuni altri di quegli esperimenti che si denominavano Giudizi di Dio, ed in particolare continuava ad essere permesso il giudizio dell’acqua fredda.
Quando il convenuto per la sua povertà non potesse pagare un campione, né fosse abile a combattere in proprio, se il giudice verificava che la “sua sostanza non arrivasse a certa somma (cento soldi)”, gli accordava appunto l’esperimento dell’acqua fredda.
Tale procedura prevedeva i giuramenti come il duello, poi il convenuto prendeva un fanciullo innocente, lo legava con una fune e lo lasciava cadere nell’acqua gelata; se l’acqua lo riceveva il convenuto era assoluto; se l’acqua lo rigettava veniva condannato.
Vi era anche un altro giudizio che consisteva nel prendere in mano un ferro infuocato, ma non era più tollerato nella città, e solo si praticava in alcuni luoghi del Milanese sottoposti alla giurisdizione dell’Arcivescovo[3].
[1] In quest’anno si decise di mettere in un codice le consuetudini cittadine. Cfr. F. SCLOPIS, Storia dell’antica legislazione del Piemonte del conte Federico Sclopis, Bocca, 1833, Torino, p. 156.
[2] G. CAMPIGLIO, Storia di Milano, vol. I, Rusconi, 1831, pag. 179.
[3] L’Arcivescovo, infatti, nelle sue terre aveva Consuetudini e Statuti diversi da quelli della città, e pure ne aveano di diversi anche altri Signori che aveano giurisdizione legittima proveniente immediatamente dall’Impero, o mediatamente da chi l’avea dato l’Impero, come dall’Arcivescovo o da qualche Conte o Capitano o altro cittadino privilegiato dall’Impero, da cui proviene ogni Giurisdizione. G. CAMPIGLIO, Storia di Milano, vol. I, Rusconi, 1831, pag. 233 e ss. Cfr. sulla tematica del duello anche G. PRISCO, Principii di filosofia del diritto sulle basi dell’etica, Tipografia Vincenzo Manfredi, Napoli, 1872, p. 185 e ss.