Brevi cenni sui sistemi alternativi di composizione dei conflitti: l’arbitrato e la conciliazione


Ad analizzare con attenzione[1] perlomeno quello che è il nostro viatico[2] tra quei sistemi di composizione dei conflitti che noi oggi chiamiamo alternativi, riscontriamo che sono stati percepiti, perlomeno sino alla fine dell’Ottocento[3], come complementari al processo e senz’altro coesistenti nell’Ordinamento[4].

L’arbitrato nei secoli è stato addirittura il salvatore delle tradizioni giuridiche ebraiche e romane (ed oggi del processo italiano?).

In epoca longobarda l’editto di Rotari configurava un foro facoltativo per i Latini che dunque si rivolgevano ai tribunali arbitrali romani. Lo stesso possiamo dire dei tribunali rabbinici in epoca romana: senza la loro presenza il diritto ebraico sarebbe sparito in quanto con Giustiniano (429 d.C.) venne abolita anche la giurisdizione ebraica in materia religiosa.

L’arbitrato è polivalente tanto che nel Medioevo è stato utilizzato anche per operazioni non necessariamente compositive dei conflitti, come la determinazione dei confini degli immobili pubblici[5], ovvero delle pubbliche vie[6], o ancora per stabilire il regime delle acque[7] o infine quando si trattasse di fare una stima dei beni pubblici[8].

Per alcuni secoli in arbitrato sono transitate obbligatoriamente le questioni e controversie familiari[9] e sino alla metà dell’Ottocento anche l’ambito societario era per lo più oggetto di arbitrato forzoso.

Il conciliatore del Regno delle Due Sicilie teneva di norma due registri: uno per le  conciliazioni e i compromessi che redigeva egli stesso e l’altro per i giudizi[10].

Unitamente al conciliatore del 1865 poteva inoltre, al pari di qualsiasi cittadino, svolgere la funzione arbitrale che peraltro rivestivano abitualmente ed inappellabilmente per le questioni di modica entità.

Prima di loro ad Atene nel periodo classico alcuni giudici, i Dieteti pubblici, svolgevano funzioni sia di arbitrato, sia di conciliazione obbligatoria: si trattava di figure analoghe ai nostri giudici di pace.

Emerge inoltre sin dalle origini il fatto che il giudizio fosse comunque visto come un’estrema ratio.

Gli Ateniesi dell’età classica[11] non gradivano in generale che si litigasse senza fondati motivi: così veniva imposto il versamento di una cauzione che andava persa se la lite era immotivata e pure di una multa di 1000 dramme che veniva elevata a chi abbandonasse un pubblico processo o non ricevesse in esso almeno un quinto dei voti favorevoli[12].

Le XII tavole dopo avere sancito tra i litiganti la validità dell’”accordo per via”, precisavano che solo nel caso in cui esso non si fosse raggiunto, ambedue le parti potevano comparire nel foro o nel comizio[13]per perorare la loro causa, ed il praetor conosceva della causa prima di mezzogiorno[14].

Ciò riposava sulla considerazione che conciliare i propri interessi appare meno costoso che accertare chi abbia ragione; e accertare la ragione od il torto è più conveniente che stabilire chi sia il più forte.

I popoli antichi ne erano ben consci. Se ne accorsero anche i cosiddetti barbari ed in particolare i Longobardi che peraltro estesero la loro legislazione a buona parte dell’Europa. Dopo secoli nei quali si diedero, come peraltro i Greci sino alla legislazione di Dracone, come regola prevalente la faida, ossia la vendetta, decisero di introdurre per legge[15]la prova di Dio e quindi un sistema processuale molto energico per stabilire il torto e la ragione, ma pure l’accomodamento pecuniario (pacificatio faidae) che peraltro consentiva all’erario di avere certe entrate e quindi coniugava l’interesse del singolo ad essere risarcito con quello della Corona[16].

Se ne rese perfettamente conto anche Carlo Magno che non si può dire non avesse un forte senso della giustizia. Lo possiamo ad esempio ricavare da un decreto che emise nell’811:“Se i Conti non fecero giustizia nell’ambito del loro ministero, allora un nostro Misso abbia cura della causa per conto nostro, sino a quando non sia stata fatta giustizia. E se un Vassallo nostro non fece giustizia, allora i Conti, e il nostro Misso siedano nella stessa casa, a loro spese, e rendano giustizia a tutti” (II. 52.2.)[17].

Tuttavia l’imperatore sentì la necessità in primo luogo di controllare personalmente coloro che non accettavano una composizione bonaria o che si rifiutavano di pagarne il prezzo: “Se qualcuno non volle accettare il prezzo della faida[18], sia trasmesso a noi, e noi lo indirizzeremo, di modo che sia fatto il minimo danno. Allo stesso modo se qualcuno non volle pagare il prezzo della faida, né quindi fare giustizia, allora che sia trasmesso a noi, e noi lo manderemo in un certo luogo, in modo che il danno non cresca” (I. 37.1)[19].

Arbitrato e conciliazione possiedono radici antichissime[20].

Già Omero sottolineava principi che pur dettati per l’arbitrato influiranno anche sulla conciliazione moderna[21]: gli Argivi, infatti, accettavano la decisione solo in quanto proveniente da persona a cui avessero conferito il potere di prenderla ed osservavano le regole soltanto qualora ciò fosse frutto di una libera scelta[22]: avevano dunque ben chiaro il concetto di consenso e di volontarietà.

Ma ben prima del racconto omerico e possiamo aggiungere, dello stesso Cristianesimo, un popolo assai fiero e bellicoso, gli Illiri[23], eredi sul punto dei Sumeri, ci regalavano una massima generale da cui conseguiva necessariamente il rispetto della volontarietà e del consenso: “Tutti gli uomini sono uguali”.

Se tutti gli uomini sono uguali non è concesso ad un uomo giudicare un suo simile a meno che questi non lo voglia; e se manca il consenso al giudizio l’unica strada percorribile è quella di coltivare i rapporti individuali tra i litiganti concedendo un “tempo di fiducia” (Besa) per trattare con l’aiuto di un terzo che può fare una proposta di composizione.

In base a questo ragionamento nasce l’arbitrato con una formula che in seguito si rivelerà in contrasto con uno Stato che vorrebbe imporre un sistema giurisdizionale[24], così prende forma altresì la conciliazione moderna che per secoli servirà ad evitare la vendetta di sangue e dunque che abbracciava[25] in sostanza l’ambito penalistico.

Platone ne Le Leggi ci parla di giudici scelti dalle parti che è meglio definire arbitri e che costituiscono il grado inferiore dei primi giudici, i quali a loro volta hanno come corte di riforma il Senato.

Ma sono presenti al filosofo anche gli strumenti di negoziato: nel dialogo I de Le leggi si interroga sul quesito se sia più avveduto un legislatore che si preoccupi di mantenere la pace esterna, ovvero quello che desideri la conservazione di quella interna. E fa pronunciare ad un suo personaggio detto “Anonimo Ateniese”[26]queste parole:

“Ma non dovremmo forse preferire un terzo tipo di giudice, uno che, raccolta una famiglia divisa, non mettesse a morte nessuno ma ne riconciliasse i membri e per il futuro desse loro delle leggi per assicurare una piena concordia reciproca?[27]

Nel dialogo XI il grande filosofo così si esprime ancora in merito alle questioni di possesso e di affrancamento dello schiavo:

I processi per questi fatti siano di competenza dei tribunali e delle tribù, a meno che le parti non pongano fine alle imputazioni reciproche presso dei vicini o dei giudici da loro scelti”.

Arbitrato e conciliazione erano vissuti in altre parole come istituti preventivi e la distinzione tra loro risiedeva più che altro nella persona del compositore.

Ed era usuale, come riferisce Platone, che prima di un approccio contenzioso si tentasse la conciliazione o l’arbitrato mediante l’ausilio dei prossimi congiunti o magari dei vicini: e ciò principalmente perché la sentenza in unico grado era senza appello e inoltre in Grecia non esistevano diritti cui corrispondessero azioni, ma qualità personali (cittadino, meteco, schiavo, straniero ecc.) che consentivano o meno determinati passi processuali.

Mentre in Albania e Kosovo per millenni si fa piena opposizione a tutti i sistemi politici, culturali, religiosi e appunto alla giurisdizione statale, negli altri luoghi quest’ultima si afferma in quanto riesce a uniformare le proprie regole a quelle dei mezzi di risoluzione che trovavano ampio spazio presso le prime cellule della comunità, la fratria (in Grecia), la gens (a Roma), la famiglia ecc.; quel che si vuole intendere è che se c’è un giudice che decide è perché c’è stato un arbitro in precedenza che ha reso una decisione.

Le stesse XII Tavole non sono altro che un’embrionale codificazione dei costumi greci e romani (mos maiorum) e in esse ci si affida sì al processo del praetor, ma esclusivamente nel caso in cui la conciliazione non abbia luogo e soprattutto un posto di primo piano è riservato all’arbitrato delegato che da ultimo prima il CNF e poi il nostro Ministero della Giustizia stanno cercando di rilanciare.

Si pensi al ruolo insostituibile che aveva l’arbitro nel reato di furto (Tavola II)[28] o a quello nel caso di regolamento di confine[29] o di danno da acqua piovana tra vicini (Tavola VIII)[30], oppure ancora alle questioni dei beni contesi (Tavola XII)[31].

Ancora nella legislazione sabauda (1770), fondamentale per la nostra materia, è ben vivo l’eco del precetto della Tavola VIII romana in tema di regolamento di confine “Decideranno parimenti le querele che insorgessero tra la gente rustica sopra la variazione de’ confini, o altro incommodo che si pretendesse ne’ beni, e percezione dei loro frutti, chiamando ed interponendo la mediazione dei più pratici di detti confini e terre, che sieno uomini dabbene, e non sospetti; ed avuto il loro sentimento, renderanno a ciascuno il loro diritto”.

Negli Statuti comunali del Medioevo troviamo esempi di esercizio della giurisdizione che sono codificazione di antichissimi costumi longobardi (cadarfrede): un caso su tutti è quello dello Statuto del Comune di Milano (1215) per cui il processo consisteva in sostanza nella celebrazione di un duello ove vittima e offensore, o i loro campioni a pagamento, risolvevano la lite a bastonate, dopo che i rispettivi avvocati avevano giurato sulla bontà delle ragioni messe in campo[32].

E per chi non avesse abbastanza denaro per  duellare o fosse inabile il giudice poteva anche autorizzare l’esperimento dell’acqua fredda[33]: il reo convenuto catturava un fanciullo innocente, lo legava con una fune e lo lasciava cadere nell’acqua gelata; se l’acqua lo riceveva il convenuto era assolto; se l’acqua lo rigettava veniva condannato[34].

L’attuale distinzione tra sistemi di ordine imposto e di ordine negoziato è insomma probabilmente una mera e tarda convenzione: spesso nell’antichità è risultato davvero difficile distinguere tra un sistema di composizione ed un altro e probabilmente i popoli antichi non ne sentivano nemmeno l’esigenza.

A Roma l’arbiter (o gli arbitri) era chiamato a giudicare dal praetor che si limitava ad istruire il processo: ai tempi di Cicerone tuttavia non si riusciva a distinguere con esattezza lo iudex dall’arbiter[35].

E ciò anche perché le questioni bagatellari venivano affidate allo iudex, mentre all’arbiter si assegnavano le questioni più complesse non solo dal lato tecnico, ma anche da quello giuridico.

Il praetor aveva poi il duplice ruolo di giudicare con equità e conciliare i litiganti, quando non ci riuscissero privatamente e ciò faceva nel foro e pure nelle dimore private[36].

In epoca giustinianea la differenza tra arbitrato e conciliazione non riposava sulla natura decisoria del secondo, ma semplicemente sul fatto che l’arbiter si obbligava a decidere, mentre il conciliatore al contrario non assumeva alcun impegno.

Forse tale modo di vedere si diffuse e si mantenne nei secoli perché la conciliazione ha avuto per molto tempo connotazioni marcatamente valutative e solo dagli anni ‘70 dello scorso secolo è entrato in gioco anche il modello facilitativo[37]; il dato storico impone comunque una riflessione: se sia o meno opportuno rilanciare una tradizione millenaria di conciliazione (attualmente quella del 322 c.p.c.[38]).

[1] L’articolo trae spunto del volume di C. A. CALCAGNO,  Breve storia della risoluzione del conflitto I sistemi di composizione dall’origine al XXI secolo, Aracne Editrice S.r.l., Roma, 2014.ISBN 978-88-548

[2] Ovvero quello di matrice greco–romana.

[3] Ciò può valere anche per i provvedimenti del XX secolo che spesso combinano arbitrato e conciliazione; e anche quando si sostituisce alla tutela giudiziaria quella arbitrale, si lascia sempre spazio per l’accordo delle parti.

[4]E tanto più questo accade ed accadrà in futuro in un mondo ove si assiste ad un progressivo avvicinamento delle culture giuridiche. V.F. CUOMO ULLOA, La Conciliazione, Modelli di composizione dei conflitti, Cedam, Padova, 2008, p. 47.

[5] <<Item. Statuimo che el rectore debba far chiamare tre buoni massari di detto Comune, e’ quali debbiano terminare tutta la terra del Comune; e terminata, neuno debbia laborare in termini; e chi contra facesse, sia punito per ciascuna volta in X soldi di denari>> § LXXXIII Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 25.

[6] <<Item, statuimo et ordiniamo ch’el signore e ‘l camerlengo sieno tenuti a fare chiamare al loro consellio tre buoni omini e leali di Montagutolo, e’ quali facciano acconciare e fare fare tutte le vie che sono utili per li uomi e per le femmine e per le bestie di Montagutolo… E che e’ buoni uomini che sono aletti dal consellio, debbiano giurare e fare saramento nuovo; el quale saramento lo’ sia contiato di farle fae bene e lealmente…>> § CXIIX Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 33-34.

[7] <<Item, statuimo et ordiniamo che e’ detti tre omini e’ quali saranno aletti per fare acconciare le vie, sieno tenuti e debbiano tutte l’acque le quali corrono per le vie del Comune,…>> § CXXXI Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 34.

[8] <<Item, statuimo et ordiniamo ch’el camerlengo e’l consellio debbiano eléggiare quattro buoni omini, due de la villa e due del castello, e’ quali debbiano fare, col camerlengo e col consellio, e’ beni del Comune>> § CLX Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 46.

[9] Con l’istituzione dei tribunali di famiglia.

[10] Il codice etneo stabiliva con riferimento alla conciliazione in corso di causa “che lo sperimento delle conciliazioni, come atti volontari, non può comunque impedire il corso de’ giudizj” (Art. 6 Codice per lo Regno delle Due Sicilie, 26 marzo 1819).

[11] Il funzionamento della giustizia ci è noto solo per quanto riguarda Atene. Per le altre città greche abbiamo informazioni scarse ed insufficienti.

[12] Cfr. R. FLACELIERE, La Grecia al tempo di Pericle, Rizzoli, 1983.La Grecia al tempo di Pericle, op. cit., p. 279.

[13] Si fa riferimento a quelle parti del foro che erano destinate all’attività contenziosa. Il pretore poteva invece esercitare la giurisdizione volontaria in qualunque luogo.

[14]Ni ita pacunt; in comitio aut in foro, ante meridiem, causam conscito: quum paerorant ambo praesentes”.

[15] Si fa qui riferimento all’Editto di Rotari (643 d.C.).

[16] Si pagava il guidrigildo all’offeso ed il fredus al re.

[17]21. “Si Comes in Suo ministerio justitiam non fecerit, tunc Missus noster de hac caussa sonare faciat, usque dum justitiae ibidem factae fuerint. Et si Vassus noster justitiam non fecerit, tunc Comes, & Missus noster in ipsa caussa sedeant, & de Suo vivant, quousque justitiam faciant”. II.52.2. Cfr. G.L. VON MURO, Geschichte Des Altgermanischen und Namentlich

Altbairischen Oeffentlich–muendlichen Gerichtsverfahrens: Dessen Vortheile, Nachtheile und

Untergang in Deutschland Ueberhaupt und in Baiern Insbesondere, JCB Mohr, Heidelberg, 1824, p. 12, nota 26.

[18] All’epoca la faida, ossia la vendetta, poteva essere bloccata attraverso il pagamento di una somma di denaro. Ciò era tipico di tutti i popoli germanici.

[19]23. XCII “Si quis pro faida pretium recipere non vult, tunc ad nos transmittatur ut nos

ipsum dirigamus ubi damnum neminem facere possit. Simili modo qui pro faida pretium soluere non vult, et iustitiam exinde facere, in tale locum illum mittere volumus, ut pro eodem maius damnum non crescat”. https://archive.org/stream/capitulariaregum02bore/

capitulariaregum02bore_djvu.txt.

[20] Nel mondo orientale sono ancora più risalenti. In Cina il primo caso di mediazione che i libri storici ricordino risale a circa 4000 anni prima di Cristo.

Si narra che il re Sheun riuscì a conciliare i membri di alcune comunità del suo regno che erano in contesa tra di loro per la proprietà di fondi e per la vendita di una partita di ceramiche.

[21] Nell’Odissea (Canto VII, v. 70–75) Omero ci rappresenta inoltre la regina Arete, moglie di Alcinoo, come una nobile di mente e di animo che appiana i contrasti tra coloro che ama.

[22] E. CANTARELLA, Diritto greco, Cuem, Milano, 1994, p. 175.

[23] Essi si stanziano nel territorio dei monti albanesi due millenni prima di Cristo, ma fondano un regno solo nel III secolo.

[24] In Kosovo ed Albania ancora oggi si mantiene questa mentalità, nonostante il Kanun che disciplina arbitrato e conciliazione non sia formalmente più legge dello stato da almeno 80 anni. Cfr. C.A. CALCAGNO,  Il Kosovo e i sistemi di risoluzione delle dispute, in https://mediaresenzaconfini.org/2014/03/14/il-kosovo-e-i-sistemi-di-risoluzione-delle-dispute/

[25] Anche in Grecia originariamente.

[26] Ossia il personaggio che nel dialogo impersona la posizione del grande filosofo.

[27]Leggi, 628. PLATONE, Le Leggi, trad. di Franco Ferrari e Silvia Poli, Bur, Milano, 2007, p. 91.

[28] Nella Tavola II dedicata ai giudizi e alla disciplina del furto si afferma  che dovrà differirsi la causa in presenza di grave malattia o di assenza per ragioni pubbliche  del giudice o dell’arbitro o del reo, oppure nel caso di controversia che veda coinvolto uno straniero (Capo II, 1. “…extra quam si morbus sonticus, votum absentia reipublica ergo, aut status dies cum hoste intercedat: si quid horum fuat unum  judici arbitro-ve, reo-ve; eo die diffensus esto.”).

[29] La Tavola VIII stabilisce che se nasce controversia tra i confinanti, il pretore eleggerà tre arbitri per regolarli : la controversia sui confini aveva il nome speciale di jurgum  e questi arbitri erano detti agrimensori. (Capo III, 2. “Si jurgant adfines finibus regundis praetor arbitros tris addicitio”).

[30] La Tavola VIII statuisce che se a causa di un lavoro eseguito da un vicino l’acqua piovana  danneggi un altro, quest’ultimo può esercitare l’azione di acquae arcendae; in tal caso il pretore concede tre arbitri, e si presta cauzione all’attore per i danni che questi tema possano avvenire nel fondo (Capo VII, 1. “Si acqua pluvia manu nocet, praetor arcendae, arbitros tris addicito, noxaeque domino cavetor”).

[31] La Tavola XII  enuncia che se qualcuno abbia ottenuto ingiustamente l’assegnazione provvisoria di bene conteso, in attesa della decisione della lite, il pretore nomini tre arbitri e in base al loro giudizio condanni il mentitore a risarcire il danno pagando il doppio dei frutti (Capo III, 1 “Si vindiciam falsam tulit,rei sive stlitis, praetor arbitros treis dato, eorum arbitrii, fructi duplione decidito”).

[32] Cfr. C.A. CALCAGNO, Il duello a Milano nel XII secolo ed il processo, in https://mediaresenzaconfini.org/2014/03/12/il-duello-a-milano-nel-xii-secolo-ed-il-processo/

[33] Quando il convenuto per la sua povertà non potesse pagare un campione, né fosse abile a combattere in proprio, se il giudice verificava che la “sua sostanza non arrivasse a certa somma (cento soldi)”, gli accordava appunto l’esperimento dell’acqua fredda.

[34] Cfr. sulla tematica del duello nel Medioevo e successivamente:  G. CAMPIGLIO, Storia di Milano, vol. I, Rusconi, 1831, pag. 233 e ss., G. PRISCO, Principii di filosofia del diritto sulle basi dell’etica, Tipografia Vincenzo Manfredi, Napoli, 1872, p. 185 e ss.; F. SCLOPIS, Storia dell’antica legislazione del Piemonte del conte Federico Sclopis, Bocca, 1833, Torino, p. 156.

[35] Se non per la estrazione: lo iudex veniva dal Senato, l’arbiter dai Cavalieri.

[36] Si tratta della cosiddetta giurisdizione de plano.

[37]In relazione al modello facilitativo ricordiamo qui le opere di diversi autori: C. ARGYRIS, D. SCHON, Apprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; K. LEWIN, Teoria del campo delle scienze sociali. Selected Theorical Papers. (Hardcover, 1951); J. LISS, La comunicazione ecologica. Manuale per la gestione dei gruppi di cambiamento sociale, La Meridiana, 1992; L. COZOLINO, Il Cervello Sociale. Neuroscienze delle relazioni umane, Raffaello Cortina Edizioni, 2008; D. A. KOLB, Experiential Learning: Experience as the source of learning and development, Prentice–Hall, 1984.

[38] Un tempo quella dei primi articoli del Codice di procedura civile del 1865.

2 pensieri riguardo “Brevi cenni sui sistemi alternativi di composizione dei conflitti: l’arbitrato e la conciliazione

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.